mercoledì, settembre 10, 2008

Il nostro posto - Concita De Gregorio


Il nostro posto
Concita De Gregorio

Sono cresciuta in un Paese fantastico di cui mi hanno insegnato ad
essere fiera. Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi a cedere il
posto in autobus a una persona anziana, ascoltare prima di parlare,
chiedere scusa, permesso, dire ho sbagliato erano principi normali e
condivisi di una educazione comune. Sono stata ragazza su banchi di
scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci invitavano a casa
loro, il pomeriggio, a rileggere ad alta voce i testi dei nostri padri
per capirne meglio e più piano la lezione. Sono andata all´estero a
studiare ancora, ho visto gli occhi sbigottiti di coloro a cui dicevo
che se hai bisogno di ingessare una frattura, nei nostri ospedali, che
tu sia il Rettore dell´Università o il bidello della Facoltà fa lo
stesso, la cura è dovuta e l´assistenza identica per tutti. Sono stata
una giovane donna che ha avuto accesso al lavoro in virtù di quel che
aveva imparato a fare e di quel che poteva dare: mai, nemmeno per un
istante, ho pensato che a parità di condizioni la sorte sarebbe stata
diversa se fossi stata uomo, fervente cattolica, ebrea o musulmana,
nata a Bisceglie o a Brescia, se mi fossi sposata in chiesa o no, se
avessi deciso di vivere con un uomo con una donna o con nessuno.

Ho saputo senza ombra di dubbio che essere di destra o di sinistra sono
cose profondamente diverse, radicalmente diverse: per troppe ragioni da
elencare qui ma per una fondamentale, quella che la nostra
Costituzione - una Costituzione antifascista - spiega all´articolo 2,
proprio all´inizio: l´esistenza (e il rispetto, e il valore, e l´amore)
del prossimo. Il "dovere inderogabile di solidarietà" che non è
concessione né compassione: è il fondamento della convivenza. Non erano
mille anni fa, erano pochi. I miei genitori sapevano che il mio futuro
sarebbe stato migliore del loro. Hanno investito su questo - investito
in educazione e in conoscenza - ed è stato così. È stato facile,
relativamente facile. È stato giusto. Per i nostri figli il futuro sarà
peggiore del nostro. Lo è. Precario, più povero, opaco.

Chi può li manda altrove, li finanzia per l´espatrio, insegna loro a
"farsi furbi". Chi non può soccombe. È un disastro collettivo, la più
grande tragedia: stiamo perdendo la fiducia, la voglia di combattere,
la speranza. Qualcosa di terribile è accaduto negli ultimi vent´anni.
Un modello culturale, etico, morale si è corrotto. La politica non è
che lo specchio di un mutamento antropologico, i modelli oggi vincenti
ne sono stati il volano: ci hanno mostrato che se violi la legge basta
avere i soldi per pagare, se hai belle le gambe puoi sposare un
miliardario e fare shopping con la sua carta di credito. Spingi, salta
la fila, corrompi, cambia opinione secondo la convenienza, mettiti al
soldo di chi ti darà una paghetta magari nella forma di una bella
presidenza di ente pubblico, di un ministero. Mettiti in salvo tu da
solo e per te: gli altri si arrangino, se ne vadano, tornino a casa
loro, crepino.

Ciò che si è insinuato nelle coscienze, nel profondo del Paese, nel
comune sentire è un problema più profondo della rappresentanza politica
che ha trovato. Quello che ora chiamiamo "berlusconismo" ne è stato il
concime e ne è il frutto. Un uomo con un potere immenso che ha promosso
e salvato se stesso dalle conseguenze che qualunque altro comune
cittadino avrebbe patito nelle medesime condizioni - lo ha fatto col
denaro, con le tv che piegano il consenso - e che ha intanto negli anni
forgiato e avvilito il comune sentire all´accettazione di questa
vergogna come fosse "normale", anzi auspicabile: un modello vincente. È
un tempo cupo quello in cui otto bambine su dieci, in quinta
elementare, sperano di fare le veline così poi da grandi trovano un
ricco che le sposi. È un tempo triste quello in cui chi è andato solo
pochi mesi fa a votare alle primarie del Partito Democratico ha già
rinunciato alla speranza, sepolta da incomprensibili diaspore e rancori
privati di uomini pubblici.

Non è irrimediabile, però. È venuto il momento di restituire ciò che ci
è stato dato. Prima di tutto la mia generazione, che è stata l´ultima
di un tempo che aveva un futuro e la prima di quello che non ne ha più.
Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in battaglia: coltivare i
pomodori dietro casa non è una buona idea, metterci la musica in cuffia
è un esilio in patria. Lamentarsi che "tanto, ormai" è un inganno e un
rifugio, una resa che pagheranno i bambini di dieci anni, regalargli
per Natale la /playstation/ non è l´alternativa a una speranza. *"Istruitevi
perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza"*, diceva l´uomo
che ha fondato questo giornale. Leggete, pensate, imparate, capite e la
vita sarà vostra. Nelle vostre mani il destino. Sarete voi la
giustizia. Ricominciamo da qui. Prendiamo in mano il testimone dei
padri e portiamolo, navigando nella complessità di questo tempo, nelle
mani dei figli. Nulla avrà senso se non potremo dirci di averci
provato.

Questo solo posso fare, io stessa, mentre ricevo da chi è venuto prima
di me il compito e la responsabilità di portare avanti un grande lavoro
collettivo. L´/Unità /è un pezzo della storia di questo Paese in cui
tutti e ciascuno, in tempi anche durissimi, hanno speso la loro forza e
la loro intelligenza a tenere ferma la barra del timone. Ricevo in
eredità - da ultimo da Furio Colombo ed Antonio Padellaro - il senso di
un impegno e di un´impresa. Quando immagino quale potrebbe essere il
prossimo pezzo di strada, in coerenza con la memoria e in sintonia con
l´avvenire, penso a un giornale capace di parlare a tutti noi, a tutti
voi di quel che anima le nostre vite, i nostri giorni: la scuola, l´università,
la ricerca che genera sapere, l´impresa che genera lavoro. Il lavoro,
il diritto ad averlo e a non morirne. La cura dell´ambiente e del mondo
in cui viviamo, il modo in cui decidiamo di procurarci l´acqua e la
luce nelle nostre case, le politiche capaci di farlo, il governo del
territorio, le città e i paesi, lo sguardo oltreconfine sull´Europa e
sul mondo, la solidarietà che vuol dire pensare a chi è venuto prima e
a chi verrà dopo, a chi è arrivato da noi adesso e viene da un mondo
più misero e peggiore, solidarietà fra generazioni, fra genti, fra
uguali ma diversi. La garanzia della salute, del reddito, della
prospettiva di una vita migliore. Credo che per raccontare la politica
serva la cronaca e che la cronaca della nostra vita sia politica. Credo
che abbiamo avuto a sufficienza retroscena per aver voglia di tornare a
raccontare, meglio e più onestamente possibile, la scena. Credo che la
sinistra, tutta la sinistra dal centro al lato estremo, abbia bisogno
di ritrovarsi sulle cose, di trovare e di dare un senso al suo
progetto. Il senso, ecco. Ritrovare il senso di una direzione comune
fondata su principi condivisi: la laicità, i diritti, le libertà, la
sicurezza, la condivisione nel dialogo. Fondata sulle cose, sulla vita,
sulla realtà. C´è già tutto quello che serve. Basterebbe rinominarlo,
metterlo insieme, capirsi. Aprire e non chiudere, ascoltarsi e non
voltarsi di spalle. È un lavoro enorme, naturalmente. Ma possiamo
farlo, dobbiamo. Questo giornale è il posto. Indicare sentieri e non
solo autostrade, altri modi, altri mondi possibili. Ci vorrà tempo.
Cominciamo oggi un lavoro che fra qualche settimana porterà nelle
vostre case un quotidiano nuovo anche nella forma. Sarà un giornale
diverso ma sarà sempre se stesso come capita, con gli anni, a ciascuno
di noi. L´identità, è questo il tema. L´identità del giornale sarà
nelle sue inchieste, nelle sue scelte, nel lavoro di ricerca e di
approfondimento che - senza sconti per nessuno - sappia spiegare cosa
sta diventando questo paese; nelle voci autorevoli che ci suggeriscano
dove altro sia possibile andare, invece, e come farlo. Sarà certo, lo
vorrei, un giornale normale niente affatto nel senso dispregiativo, e
per me incomprensibile, che molti danno a questo attributo: sarà un
normale giornale di militanza, di battaglia, di opposizione a tutto
quel che non ci piace e non ci serve. Aperto a chi ha da dire, a tutti
quelli che non hanno sinora avuto posto per dire accanto a quelli che
vorranno continuare ad esercitare qui la loro passione, il loro
impegno. Non è qualcosa, come chiunque capisce, che si possa fare in
solitudine. C´è bisogno di voi. Di tutti, uno per uno. Non ci si può
tirare indietro adesso, non si deve. È questa la nostra storia, questo
è il nostro posto.

1 commento:

Valen ha detto...

tutto questo mi rattristisce
anni fa un mio amico, Carlos (argentino), mi diceva vedendo le cose che stavano succedendo... che l'economia Italiana stava seguendo i passi di quella Argentina... oggi purtroppo gli devo dare ragione... ci deve essere una via diversa da questa...