mercoledì, settembre 10, 2008

Il nostro posto - Concita De Gregorio


Il nostro posto
Concita De Gregorio

Sono cresciuta in un Paese fantastico di cui mi hanno insegnato ad
essere fiera. Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi a cedere il
posto in autobus a una persona anziana, ascoltare prima di parlare,
chiedere scusa, permesso, dire ho sbagliato erano principi normali e
condivisi di una educazione comune. Sono stata ragazza su banchi di
scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci invitavano a casa
loro, il pomeriggio, a rileggere ad alta voce i testi dei nostri padri
per capirne meglio e più piano la lezione. Sono andata all´estero a
studiare ancora, ho visto gli occhi sbigottiti di coloro a cui dicevo
che se hai bisogno di ingessare una frattura, nei nostri ospedali, che
tu sia il Rettore dell´Università o il bidello della Facoltà fa lo
stesso, la cura è dovuta e l´assistenza identica per tutti. Sono stata
una giovane donna che ha avuto accesso al lavoro in virtù di quel che
aveva imparato a fare e di quel che poteva dare: mai, nemmeno per un
istante, ho pensato che a parità di condizioni la sorte sarebbe stata
diversa se fossi stata uomo, fervente cattolica, ebrea o musulmana,
nata a Bisceglie o a Brescia, se mi fossi sposata in chiesa o no, se
avessi deciso di vivere con un uomo con una donna o con nessuno.

Ho saputo senza ombra di dubbio che essere di destra o di sinistra sono
cose profondamente diverse, radicalmente diverse: per troppe ragioni da
elencare qui ma per una fondamentale, quella che la nostra
Costituzione - una Costituzione antifascista - spiega all´articolo 2,
proprio all´inizio: l´esistenza (e il rispetto, e il valore, e l´amore)
del prossimo. Il "dovere inderogabile di solidarietà" che non è
concessione né compassione: è il fondamento della convivenza. Non erano
mille anni fa, erano pochi. I miei genitori sapevano che il mio futuro
sarebbe stato migliore del loro. Hanno investito su questo - investito
in educazione e in conoscenza - ed è stato così. È stato facile,
relativamente facile. È stato giusto. Per i nostri figli il futuro sarà
peggiore del nostro. Lo è. Precario, più povero, opaco.

Chi può li manda altrove, li finanzia per l´espatrio, insegna loro a
"farsi furbi". Chi non può soccombe. È un disastro collettivo, la più
grande tragedia: stiamo perdendo la fiducia, la voglia di combattere,
la speranza. Qualcosa di terribile è accaduto negli ultimi vent´anni.
Un modello culturale, etico, morale si è corrotto. La politica non è
che lo specchio di un mutamento antropologico, i modelli oggi vincenti
ne sono stati il volano: ci hanno mostrato che se violi la legge basta
avere i soldi per pagare, se hai belle le gambe puoi sposare un
miliardario e fare shopping con la sua carta di credito. Spingi, salta
la fila, corrompi, cambia opinione secondo la convenienza, mettiti al
soldo di chi ti darà una paghetta magari nella forma di una bella
presidenza di ente pubblico, di un ministero. Mettiti in salvo tu da
solo e per te: gli altri si arrangino, se ne vadano, tornino a casa
loro, crepino.

Ciò che si è insinuato nelle coscienze, nel profondo del Paese, nel
comune sentire è un problema più profondo della rappresentanza politica
che ha trovato. Quello che ora chiamiamo "berlusconismo" ne è stato il
concime e ne è il frutto. Un uomo con un potere immenso che ha promosso
e salvato se stesso dalle conseguenze che qualunque altro comune
cittadino avrebbe patito nelle medesime condizioni - lo ha fatto col
denaro, con le tv che piegano il consenso - e che ha intanto negli anni
forgiato e avvilito il comune sentire all´accettazione di questa
vergogna come fosse "normale", anzi auspicabile: un modello vincente. È
un tempo cupo quello in cui otto bambine su dieci, in quinta
elementare, sperano di fare le veline così poi da grandi trovano un
ricco che le sposi. È un tempo triste quello in cui chi è andato solo
pochi mesi fa a votare alle primarie del Partito Democratico ha già
rinunciato alla speranza, sepolta da incomprensibili diaspore e rancori
privati di uomini pubblici.

Non è irrimediabile, però. È venuto il momento di restituire ciò che ci
è stato dato. Prima di tutto la mia generazione, che è stata l´ultima
di un tempo che aveva un futuro e la prima di quello che non ne ha più.
Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in battaglia: coltivare i
pomodori dietro casa non è una buona idea, metterci la musica in cuffia
è un esilio in patria. Lamentarsi che "tanto, ormai" è un inganno e un
rifugio, una resa che pagheranno i bambini di dieci anni, regalargli
per Natale la /playstation/ non è l´alternativa a una speranza. *"Istruitevi
perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza"*, diceva l´uomo
che ha fondato questo giornale. Leggete, pensate, imparate, capite e la
vita sarà vostra. Nelle vostre mani il destino. Sarete voi la
giustizia. Ricominciamo da qui. Prendiamo in mano il testimone dei
padri e portiamolo, navigando nella complessità di questo tempo, nelle
mani dei figli. Nulla avrà senso se non potremo dirci di averci
provato.

Questo solo posso fare, io stessa, mentre ricevo da chi è venuto prima
di me il compito e la responsabilità di portare avanti un grande lavoro
collettivo. L´/Unità /è un pezzo della storia di questo Paese in cui
tutti e ciascuno, in tempi anche durissimi, hanno speso la loro forza e
la loro intelligenza a tenere ferma la barra del timone. Ricevo in
eredità - da ultimo da Furio Colombo ed Antonio Padellaro - il senso di
un impegno e di un´impresa. Quando immagino quale potrebbe essere il
prossimo pezzo di strada, in coerenza con la memoria e in sintonia con
l´avvenire, penso a un giornale capace di parlare a tutti noi, a tutti
voi di quel che anima le nostre vite, i nostri giorni: la scuola, l´università,
la ricerca che genera sapere, l´impresa che genera lavoro. Il lavoro,
il diritto ad averlo e a non morirne. La cura dell´ambiente e del mondo
in cui viviamo, il modo in cui decidiamo di procurarci l´acqua e la
luce nelle nostre case, le politiche capaci di farlo, il governo del
territorio, le città e i paesi, lo sguardo oltreconfine sull´Europa e
sul mondo, la solidarietà che vuol dire pensare a chi è venuto prima e
a chi verrà dopo, a chi è arrivato da noi adesso e viene da un mondo
più misero e peggiore, solidarietà fra generazioni, fra genti, fra
uguali ma diversi. La garanzia della salute, del reddito, della
prospettiva di una vita migliore. Credo che per raccontare la politica
serva la cronaca e che la cronaca della nostra vita sia politica. Credo
che abbiamo avuto a sufficienza retroscena per aver voglia di tornare a
raccontare, meglio e più onestamente possibile, la scena. Credo che la
sinistra, tutta la sinistra dal centro al lato estremo, abbia bisogno
di ritrovarsi sulle cose, di trovare e di dare un senso al suo
progetto. Il senso, ecco. Ritrovare il senso di una direzione comune
fondata su principi condivisi: la laicità, i diritti, le libertà, la
sicurezza, la condivisione nel dialogo. Fondata sulle cose, sulla vita,
sulla realtà. C´è già tutto quello che serve. Basterebbe rinominarlo,
metterlo insieme, capirsi. Aprire e non chiudere, ascoltarsi e non
voltarsi di spalle. È un lavoro enorme, naturalmente. Ma possiamo
farlo, dobbiamo. Questo giornale è il posto. Indicare sentieri e non
solo autostrade, altri modi, altri mondi possibili. Ci vorrà tempo.
Cominciamo oggi un lavoro che fra qualche settimana porterà nelle
vostre case un quotidiano nuovo anche nella forma. Sarà un giornale
diverso ma sarà sempre se stesso come capita, con gli anni, a ciascuno
di noi. L´identità, è questo il tema. L´identità del giornale sarà
nelle sue inchieste, nelle sue scelte, nel lavoro di ricerca e di
approfondimento che - senza sconti per nessuno - sappia spiegare cosa
sta diventando questo paese; nelle voci autorevoli che ci suggeriscano
dove altro sia possibile andare, invece, e come farlo. Sarà certo, lo
vorrei, un giornale normale niente affatto nel senso dispregiativo, e
per me incomprensibile, che molti danno a questo attributo: sarà un
normale giornale di militanza, di battaglia, di opposizione a tutto
quel che non ci piace e non ci serve. Aperto a chi ha da dire, a tutti
quelli che non hanno sinora avuto posto per dire accanto a quelli che
vorranno continuare ad esercitare qui la loro passione, il loro
impegno. Non è qualcosa, come chiunque capisce, che si possa fare in
solitudine. C´è bisogno di voi. Di tutti, uno per uno. Non ci si può
tirare indietro adesso, non si deve. È questa la nostra storia, questo
è il nostro posto.

Fascisti. Perchè stupirsi?


C'è una qualche ragione di stupore nel fatto che alla celebrazione della difesa di Roma l'8 settembre - l'8 settembre!, nel giorno in cui quelli come lui, i nostalgici della Patria Littoria e, insieme, i ministri della difesa, dovrebbero, per decenza, chiudersi in silenziosa meditazione -, il ministro La Russa non abbia trovato di meglio che tessere l'elogio dei combattenti di Salò? Ignazio La Russa è un fascista (può sembrate anacronistico, ma è così). Era fascista trent'anni fa, quando bazzicava piazza San Babila. Ha continuato a essere fascista per tutto il tempo in cui ha ricoperto alte cariche in un partito, il Msi, che aveva nel proprio simbolo il sacello del duce e che ostentava come un onore la discendenza dalla Repubblica sociale. E' rimasto fascista nonostante la riverniciatura di Fiuggi. E' fascista culturalmente. Politicamente. Anche antropologicamente, lasciatemelo dire, tanto da sembrare una caricatura del fascista. Lo è allo stesso modo di Alemanno, di Gasparri, di Storace... Quello che ha detto a Porta San Paolo lo aveva già detto, in forma certamente più cruda, prima del '94, nelle sezioni del suo partito dove troneggiava di solito il testone di Mussolini e pendevano ai muri i gagliardetti della «decima mas». E lo avrà ripetuto chissà quante volte ai raduni reducistici della Divisione Littorio o della «Ettore Muti» (quelli, per intenderci, che rastrellavano con i tedeschi le nostre valli e bruciavano le borgate ribelli). Quello che colpisce e indigna, nei fatti di ieri, è che ora lo dica non più da «uomo di partito», ma da ministro - e non un ministro qualunque -: da Ministro della Difesa, uno che rappresenta il braccio armato della nostra nazione, e che decide della vita e della morte sia dei nostri soldati che di quelli che se li trovano davanti. Quella «lettura» della storia italiana viene dal cuore del potere governativo, dal suo nucleo più duro, e inquietante, perché preposto «all'esercizio della forza». Ma anche questo è un segno dei tempi. Della profonda trasformazione - e degenerazione - del nostro sistema politico. Del mutamento strutturale - di «regime», potremmo dire - dell'assetto istituzionale italiano. Se il fascista La Russa può permettersi di usare, da quel podio, «istituzionalmente», un linguaggio che negli ultimi anni aveva dovuto moderare e mascherare, se può dire quello che pensava e che pensa, è perché avverte che se lo può permettere. Che si sono abbassate le difese immunitarie del paese rispetto a quella retorica e a quelle argomentazioni. Che nel senso comune prevalente, la memoria di quegli eventi è ferita, neutralizzata, in ampia misura azzerata. Sembra che, interpellato, il ministro abbia risposto di aver «detto cose molto meno impegnative di quelle che disse Violante sui ragazzi di Salò, o di quello che ha detto lo stesso Veltroni». E purtroppo colpisce un punto dolente, perché lo strappo di Porta San Paolo avviene su un terreno già preparato da tempo. CONTINUA | PAGINA 6 Si insinua in un vuoto di consapevolezza e di coscienza storica lasciato da chi, per rincorrere mode mediatiche e troppo facili riconoscimenti dall'avversario politico, ha bruciato troppi ponti. Cancellato troppe linee identitarie. Giocato troppo spregiudicatamente con la propria e l'altrui storia. I «regimi» nascono, e soprattutto si manifestano, anche così: non solo con i fatti, ma con le parole. E se dei fatti (e misfatti) di questo governo le vittime sono gli «ultimi», quelli su cui è facile maramaldeggiare (i migranti, i rom, i precari, i senza voce...), delle parole vittima sono i «primi»: i fondatori di questa Repubblica che si appanna e svanisce. Quelli che l'8 settembre, in solitudine, nel naufragio della patria, scelsero. Un'Altra Italia, da allora non certo maggioritaria, ma autorevole, capace di voce e di memoria. Ostacolo e limite a ogni tentativo di ritorno. E' quella la vittima sacrificale di Porta San Paolo. Il segno che, sessantacinque anni dopo, Roma è caduta. Lo misureremo nei prossimi giorni, dall'intensità della risposta, quanto profonda sia la caduta. Ma se quelle parole dovessero «passare». Se venissero archiviate come cronaca nel gossip dominante. Se la pur dignitosa e autorevole replica del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dovesse restare la sola, e non si materializzasse - di contro - una ferma, diffusa, condivisa e forte risposta, allora dovremmo concludere che il cerchio si chiude. E l'autobiografia della nazione si ripropone, nel suo eterno ritornare.



Marco Revelli

tratto da il manifesto del 9/9/08

venerdì, settembre 05, 2008

Tuvixeddu. Firma l'appello


Appello promosso da Eddyburg e Il Manifesto Sardo

La necropoli di Tuvixeddu, uno dei più importanti contesti funerari ipogeici del mondo antico e testimonianza della Cagliari punica, poi romana, corre un rischio mortale sotto l'assalto della cementificazione. Il colle urbano, caratterizzato da migliaia di tombe che raccontano una epocale vicenda paesaggistica, funeraria, architettonica e decorativa della città, sino a proporre pregevoli documentazioni moderne Liberty, sta subendo un ulteriore e forse definitivo affronto dopo cinquant'anni di devastazioni urbanistiche.
La sentenza del Consiglio di Stato riporta il complesso monumentale ai vecchi e inadeguati vincoli del 1997 che la Regione Autonoma della Sardegna, pur con gravi errori procedurali, aveva cercato di rendere congrui all'importanza dell'area: ma il pregio eccezionale del sito e la necessità di una tutela ben più ampia di quella legata all'accordo di programma del 2000 non possono essere messi in discussione.
Straordinarie architetture cavate e decorate in affresco rendono Tuvixeddu in grado di far capire ciò che non è più documentato, in qualità e ampiezza, né a Cartagine né nel Libano dei Fenici....leggi tutto e firma la petizione

domenica, agosto 31, 2008

In pino veritas


Ogni singolo albero è un organismo complesso, un essere vivente, che respira quindi, che mangia, che produce costantemente ossigeno, che genera frutti, che da ombra e ristoro, che accoglie specie animali dando loro riparo e protezione.

Il pino domestico è un albero e, come tale, presenta le stesse qualità degli alberi in generale.

Secondo voi vale più un pino o una postazione per una telecamera di una TV?

Ve lo chiedo perchè a Cagliari, per far posto a una telecamera che dovrà riprendere la Santa Messa officiata dal Papa (domenica 7 settembre, a Bonaria), è stato abbattuto, segato, tagliato, tolto di mezzo, giustiziato un pino. Un pino pluridecennale che, tra l'altro, aveva già assistitto dalla stessa postazione alle Messe di Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Chi ha deciso di elminare il pino?

Dal rapporto che gli esseri umani hanno con gli esseri vegetali si possono capire tante cose, persino la bontà e la capacità di una amministrazione pubblica. Non so se chi tratta male i pini, e gli alberi in generale, sia una persona per bene. In pino veritas.



Pino domestico o Pino da pinoli - Pinus pinea L.
Atlante degli alberi - Piante forestali
Classificazione, origine e diffusione

Divisione: Spermatophyta
Sottodivisione: Gymnospermae
Classe: Coniferae
Famiglia: Pinaceae

Noto anche come Pino da pinoli, è un albero alto fino a 30 metri e con un diametro massimo di quasi 2 metri. Originario delle coste del Mediterraneo, è largamente diffuso in Italia (dal Lauretum alla sottozona calda del Castanetum).
Caratteristiche generali

Dimensione e portamento
Albero alto fino a 30 metri. Caratteristica la sua chioma ad ombrello, formata da rami che si concentrano nella parte alta del tronco terminando con le punte rivolte verso l'alto.
Tronco e corteccia
Tronco diritto e spesso biforcato nei vecchi alberi ad una certa altezza. Corteccia dapprima grigia e finemente rugosa, poi profondamente solcata in placche bruno-grigiastre.
Foglie
Aghi lunghi da 12 a 15 cm, rigidi, di colore verde vivo, pungenti all'apice. Alla base sono avvolti da una guaina trasparente e persistente.
Strutture riproduttive
Coni maschili numerosi, piccoli, gialli alla base dei rametti dell'anno. Coni femminili, prima piccoli e tondeggianti, poi globosi e pesanti diametro 10-12 cm, prima verdi, poi rosso-bruni a maturità (dopo te anni). Le squame legnose contengono ciascuna due semi dal guscio legnoso (pinoli).
Usi

L'utilizzo principale del Pino domestico nell'antichità era la produzione di pinoli che costituivano una base molto importante dell'alimentazione umana. Per questo è stato largamente impiegato per l'impianto di pinete lungo le zone litoranee, anche dove il clima non è quello ottimale per la specie (pinete alto Adriatico).

lunedì, agosto 04, 2008

Supponete che l'inferno...


Supponete che le persone in coma sognino. E che sognino di essere in coma e di non potersi svegliare. Supponete che per sedici anni facciate sempre lo stesso sogno, ogni giorno e per 24 ore continuative.

Riuscite a immaginare sofferenza peggiore?

Ecco, l'ideologia dominante nel paese vuole che le persone in coma continuino ad esserlo anche all'infinito. Non c'è parere di genitori o medici, non c'è esplicita volontà del paziente che vengano prese in considerazione dall'ideologia dominante.

Oggi, in Parlamento, siedono i rappresentanti di questa ideologia. Gli unici a opporsi sono quelli di IDV

da Repubblica.it
L'intervista/ Il professor Franco Henriquet, responsabile del Centro Gigi Ghirotti
"Senza riflettori avremmo già assecondato le volontà del signor Englaro"
Eluana, un hospice per morire
"Ma ora è un caso politico"
In Italia 206 Centri residenziali per le cure palliative dove poter vivere una buona morte
di CLAUDIA FUSANI
ROMA - L'ultima battaglia di Eluana sarà ancora lunga e dall'incerto destino. "E alla mercè, purtroppo, del dibattito politico che si è incardinato su un crinale molto ideologico e molto distante da quella che è la prassi della vita quotidiana" dice il professor Franco Henriquet responsabile del Centro Gigi Ghirotti di Genova, un hospice per metà pubblico e per metà privato. E invece, per dire quanto ci può essere di non-detto e di sottinteso in questo dibattito sul caso Englaro, se Eluana, già anni fa, fosse stata portata in uno dei 206 hospice operativi in Italia, a questo punto sarebbe già morta. Secondo la sua volontà e in libertà di coscienza dei suoi familiari. E senza scomodare le supreme gerarchie vaticane.

Una premessa: gli hospice sono Centri residenziali per le cure palliative, luoghi pubblici, privati o affidati a onlus dove vengono ricoverati i malati terminali, coloro per i quali non c'è più nulla da fare. "Non luoghi dove si va a morire" si legge nel primo Rapporto nazionale su questi centri voluto dall'allora ministro Livia Turco, "ma dove si va a vivere meglio una fase naturale della propria esistenza". Luoghi dove i pazienti hanno una prognosi "infausta" e "un'aspettativa di vita valutata in sei mesi in base ad indicatori scientifici e all'esperienza dell'equipe curante". Dove chi entra, entro un mese, in genere muore. Con dignità e limitando il più possibile la sofferenza. In Italia gli hospice sono nati nel 1999 grazie a un'intuizione dell'allora ministro della Sanità Rosy Bindi. Oggi sono 206, per lo più al nord, garantiscono 2.346 posti letto a fronte di 250 mila malati terminali che ogni anno attraversano la fase finale della propria vita. Il professor Henriquet dirige uno di questi centri.

Nel Centro che lei dirige quanti malati entrano ogni anno?
"Una media di 250 persone. Che muoiono per lo più nel giro di poche settimane. Sono malati coscienti e terminali, chi per tumore, chi per sindromi neurologiche, come la Sla".

Cosa succede a questi malati?
"Sono tutte persone che hanno manifestato personalmente o al familiare la volontà di non essere sottoposti a tracheotomie, alimentazioni, idratazioni o ventilazioni assistite perchè le considerano accanimenti terapeutici".

Come Welby?
"Con patologie analoghe a quelle del signor Welby".

E quindi?
"Quindi, come stabilisce la Costituzione, la convenzione di Oviedo, il codice civile e deontologico, interrompiamo ventilazione o alimentazione artificiale. Rispettiamo la volontà del paziente".

Professore, una domanda difficile. Se il signor Englaro si rivolgesse al suo centro per ricoverare Eluana, sarebbe accolto?
"In questo momento sarebbe molto difficile. E' diventato un caso nazionale, pubblico, politico e giudiziario. Aggiungo un 'purtroppo'. Accogliendo quella povera ragazza, si darebbe dell'hospice l'immagine di luoghi di morte... Insomma un'immagine negativa".

Ed è per questo che il signor Englaro non ha trovato ascolto in alcuno dei 48 centri operativi in Lombardia. Facciamo finta per un attimo che i riflettori siano spenti e che Eluana non sia un caso. Cosa farebbe?
"Avrei assecondato la volontà del padre sicuro che è la volontà della figlia, cioè interrompere ogni tipo di cura configurabile come accanimento terapeutico. Quel padre ha tutte le ragioni del mondo nel fare questa battaglia e nel chiedere la fine delle sofferenze per la figlia. Solo che la mancanza del testamento biologico, nel momento in cui il caso diventa pubblico, espone il medico a rischi penali come l'incriminazione per omissione di soccorso".

Proviamo a raccontare cosa succederebbe se una qualsiasi Eluana fosse ricoverata in un hospice?
"Dopo un certo tempo, al massimo sono due anni, in cui equipe mediche e parametri clinici rigorosissimi accertano lo stato di irreversibilità del coma, se i parenti ci chiedono di staccare sondini alimentari e/o ventilazioni, lo facciamo. Accade quasi tutti i giorni nelle terapie intensive".

E cosa sarebbe scritto nella cartella clinica?
"Coma irreversibile, si interrompe ventilazione artificiale per volontà dei familiari".

Però c'è anche chi dice no, andiamo avanti, speriamo.
"E sono anche questi tantissimi. Per il medico è e resta centrale la volontà del paziente e dei familiari. Io sono onorato di aver avuto per 30 anni come paziente Rosanna Benzi, una donna straordinaria, piena di vitalità e nel pieno delle sue capacità intellettuali. Condannata al polmone d'acciaio, voleva vivere e ha vissuto. E' morta, poi, ma per un tumore".

Libertà di coscienza, quindi.
"I codici deontologici professionali ruotano tutti intorno al principio del rispetto della volontà del paziente".

I malati, professore, cosa chiedono?
"Alcuni vogliono lottare fino in fondo. Altri, i più, non vogliono oltranzismo terapeutico, non vogliono soffrire".

Il sondino che alimenta Eluana è cura medica oppure no?
"E' prestazione medica: è stato accertato, deciso e scritto. Quindi il sondino è accanimento terapeutico".

Quanto serve il testamento biologico?
"E' fondamentale per tutelare il medico e per regolamentare le fasi della vita in cui il malato non è cosciente e non ha mai affidato a un famigliare o ad un parente stretto le sue volontà".

Sta seguendo il dibattito politico sul caso?
"Purtroppo è diventata una diatriba ideologica. Da una parte il valore della vita che va difesa anche in situazioni estreme; dall'altra il principio della determinazione della libertà di scelta. Così è paralizzante, non si va da nessuna parte. Anche perchè a peggiorare la situazione ci pensa l'ennesimo conflitto tra politica e magistratura, con la politica che prevarica il giudiziario...".

Eluana soffrirebbe se le fosse staccato il sondino?
"No, perchè è in coma e non è cosciente".

Quanto tempo per morire, professore?
"Un mese, al massimo".

Il gobbo di Arcore


«Ridurremo le spese per non aumentare tasse»

In sostanza dice: tagliamo il welfare (che è uno strumento di redistribuzione della ricchezza a vantaggio dei cittadini più deboli) e non aumentiamo le tasse ai ricchi (tra i quali predomina egli stesso in prima persona).

Chiamatelo scemo!

E' proprio un gobbo, invece. Il gobbo di Arcore. Santo subito.

E Veltroni ancora lì a reggergli la coda....Ma va la, pistola....

sabato, luglio 26, 2008

La nebbia



Elvira, dammi la mano. Hai paura? No, ma non riesco a vedere la strada. Mi sono persa anche io, Amalia...la nebbia.
Mi capita, a volte, di girare intorno al campanile e credere di essere arrivata da te. Ma non ci sono.
Compaiono volti improvvisi, scavati dall'umidità di queste albe autunnali. Chi sei?
Vincenza, sei tu?

Maria, torna indietro. Non cercare noi che stiamo tra le nebbie del ricordo.

Le vecchie, con le loro vestaglie di fumo, si confusero nuovamente nella brughiera nebbiosa e Maria tornò in città.

Quella sera la nebbia avvolgeva la città. Si era mangiata famelica i contorni delle cose: lampioni, asfalto, finestre, portoni, negozi, insegne, cortili, alberi, panchine, sedie, piazze, tram. Fino a quando tutto scomparve e rimasero solo ombre vaporose alla ricerca come di un legame a doppio filo con la realtà, ma senza speranza di recupero, ormai. Chiunque avesse osato sfidare quella cortina densa e mutante – eppure fissa – avrebbe potuto incontrare i fantasmi della propria coscienza, smascherare la solitudine e fare emergere le smorfie dei sogni; perché la nebbia è la messaggera degli dei, che la usano per celarsi e riapparire per un attimo nei suoi vortici confusi e umidi, a fare da specchio alle inquietudini umane. Nel silenzio quasi notturno, apparvero dei passi. “Elvira, sei tu? Ma dov’eri? Entra che prendi freddo.” In casa, la caffettiera borbottava per la cena. Amalia usava bere il caffellatte, e ne offrì una scodella fumante a Elvira. Sapeva come calmare la sorella. Bastava assecondare le onde della sua delusione e della rabbia: muovere la testa per assentire, intercalare con qualche “eh, sì” “è vero” “hai ragione” “oh, è proprio così”. E una tazza di caffellatte. Davanti alla quale, certe volte, passavano lunghi minuti a contemplare in silenzio prima le spire di fumo che salivano verso la credenza e poi la panna che si rapprendeva sulla superficie, come l’inverno che indurisce i laghi, tra i vapori ghiacciati. Amalia proteggeva quella sorella maggiore che usciva spesso e girava per la città alla ricerca dei genitori, della sua casa, dei bambini piccoli da accudire; rispettava la sua fissazione, l’accettava perché le disgrazie non lo sono mai completamente e perché sperava comunque in una compensazione dei sacrifici fatti per Elvira. Se non in questa vita, agli scampoli, nell’altra. In qualche momento le capitava di chiedersi chi tra le due avesse ceduto alle intemperie dell’esistenza, e se le cose avrebbero potuto andare diversamente se la guerra non fosse arrivata a creare macerie. Quante macerie. Le nubi di polvere grigia, quella delle case che cadevano senza un lamento, a febbraio e maggio, che toglievano il respiro e bruciavano gli occhi, erano sorelle della nebbia di quella sera, ma più tristi perché nascondevano corpi veri e spezzati. Bombardamenti. Spezzonamenti. Qualcuno le aveva spiegato la differenza ma adesso non era importante. Adesso, e da quanti anni, c’era Elvira da accudire, quella ottantacinquenne che aveva messo tra parentesi oltre quaranta anni di vita. Cancellati, mandati in fumo, come quello del caffellatte davanti ai loro volti. “Lasciami andare. Devo tornare a casa mia.” Elvira l’accusava di sfruttarla, di trattenerla per rammendare e cucire, il suo mestiere. “Tu non mi sopporti” diceva. E in parte, in qualche angolo del cervello di Amalia, era vero, ma non per quello che diceva la sorella, no. Per lei che non aveva seppellito la verità, quel ricordo continuamente mozzato, quello iato dell’esistenza comune, erano una lama tagliente nel cuore; così come la sua incapacità a fermarla, a bloccarla, a far rinsavire Elvira. Sì, le capitava di non sopportare, ma con quali sensi di colpa, quante lacrime. E poi. E poi, altre volte, il martellamento continuo di bugie faceva vacillare la verità. I genitori e i fratelli potevano non essere morti sotto le bombe del ‘43; magari i piccoli ancora vagavano, adulti senza memoria, di ospedale in ospedale. Era possibile? “Sì, si. Vedrai che ci torni, a casa. Ma adesso bevi e stiamo un po’ al calduccio, qui.” Spesso, durante i lunghi inverni bui, Elvira sfilava dalla tasca del grembiale gli occhiali per vicino e un ritaglio di giornale, ingiallito e mangiucchiato. Leggeva sottovoce un elenco di nomi, di strade, di monumenti, il cordoglio della municipalità, le scuse degli inglesi fatte in italiano, il dolore dei parenti. Leggeva con eleganza e con distacco, usando l’impostazione delle grandi occasioni, ma quasi in silenzio, e soprattutto evitando di pronunciare i nomi delle persone care. Quelli li saltava. Chissà se consciamente. Amalia riprese a sorseggiare la sua cena garbata, la terminò e andò a sciacquare la scodella nel lavandino di granito. “Ecco l’elenco delle vittime del bombardamento”. Elvira lesse di nuovo i nomi. E provò la solita stretta al cuore. Ancora aveva il senno di pensare che il dolore non è una parola che si può leggere sul giornale. In quei momenti lei lo assaporava e sapeva – senza saperlo - cosa fosse, anche se non capiva da dove provenisse, né il motivo. Credeva di non conoscere nessuna delle vittime e i luoghi bombardati. Amalia sorrideva, premurosa. Si avvicinò alla sorella e con dolcezza le chiese di andare a letto. "Non ancora, Amalia. Restiamo ancora un momento" rispose Elvira. Era instancabile, e avrebbe potuto camminare altri chilometri prima di dichiararsi vinta. "Non l'hai buttato ancora quel ritaglio dell'Unione?" Elvira ricambiò il sorriso alla sorella. “Amalia, vai a prendere la gonna, che così finisco l’orlo.” Amalia salì le scale che dall’andito portavano alla camera da letto, l’unica al piano di sopra, condivisa nell’immediato dopoguerra da tutte le quattro sorelle rientrate dallo sfollamento, aprì il cassettone del comò chippendale e prima di prendere la gonna si incantò sul portagioie in legno e ottone dentro cui riposavano le fotografie dei genitori, delle sorelle e degli altri parenti immortalati dalla Argus dello zio. Ma dove era finita quella macchina fotografica? Non l’aveva più trovata. A dire il vero non l’aveva neppure cercata: solo ora si era ricordata della marca. Argus. Una ventata di ricordi arrivò. Che era? Nel servizio a fianco la finestrella era chiusa e il vetro rotto a mo’ di triangolo scaleno non giustificava quella corrente d’aria. Ridiscese le scale con la velocità consentita dalle sue settantanove primavere. La porta d’ingresso era spalancata e la nebbia stava conquistando terreno: le sue bandiere sventolavano sulla credenza liberty, sui fornelli del cucinino, sul tavolo in formica, sul lavandino in granito e sul concone per il bagno dei bambini, unica eredità della vecchia casa. Se avesse tardato a richiudere, tutto sarebbe sparito sotto quel manto biancastro. Si lasciò andare sulla sedia impagliata e chiamò a voce alta “Elvira.” Considerò che con quel tempo da lupi lì fuori, non fosse il caso di aspettare troppo. Decise allora di uscire subito; si mise il paltò - che aspettava, non da troppo, arrampicato sull’attaccapanni – e andò in cerca della sorella. La nebbia non l’avrebbe confusa, sapeva esattamente dove andare. Ma quella sera, forse diventata notte, la bruma era spessa e densa; a ogni passo sentiva di allontanarsi dalle mura di casa e di perdersi nei vicoli della città. E ogni passo era come se lo posasse sulla neve, fredda, dura e avvolgente, che le nascondeva le scarpe: era uscita scalza. Dio mio, col paltò e scalza. Sorrise pensando alla faccia della sorella quando l’avrebbe ritrovata e insieme avrebbero commentato, con quel senso amaramente ironico che le contraddistingueva. Quando la bomba colpì la casa, Amalia era vicino al porto, in preda al panico. Aveva visto gli aerei venire da sud, ingrandirsi, assordare con il boato dei motori, e poi le luci, le esplosioni, le urla, le corse, le navi incendiate, la contraerea che rispondeva in ritardo, quando già l’inferno era concluso. O era solo l’inizio? Quasi da subito il fumo e la polvere tentarono di nascondere la realtà. Appena giunta davanti alla casa, metà era sparita nella polvere. E come la loro, erano sprofondate quasi tutte le case di via Siotto Pintor e via Sant’Efisio. Cosa volevano colpire quei criminali? Quali nemici avevano intravisto tra i vicoli dei falegnami e delle botteghe dei vinai, nelle casupole dei pescatori o in quelle dei carpentieri? Glielo avessero chiesto, li avrebbe fatti entrare in casa, gli inglesi, e li avrebbe invitati a pranzo e gli avrebbe fatto vedere che lì non c’erano persone pericolose. Uno sbaglio, si scusarono più tardi. Elvira arrivò subito dopo e cominciò a scavare accanto a una squadra di soccorso. Usava le mani e i gomiti e gridava continuamente i nomi conosciuti. Ma poi era passato tutto. Avevano lavorato sodo e si erano rimesse in piedi. Tutto bene. Tranne dentro Elvira, le cui arterie lavoravano alacremente per restituirle una specie di oblio della malinconia. Ma ora doveva trovarla. C’era riuscita sempre e anche quella sera ce l’avrebbe fatta. La sentiva già a pochi metri da sé, con quel suo passo strascicato e svelto. Udiva la sua voce domandare ai fantasmi incontrati “Mi può indicare dove abitano i miei genitori?” “Più avanti, signora. Un poco più in là.” Amalia credeva di essersi diretta verso il centro, invece era vicina agli stagni. Sentiva l’odore delle nasse e della nafta. E il guizzo lento di qualche anguilla sul pelo dell’acqua. Le parve anche di vedere qualche viso avanzare nella nebbia. Volti sconosciuti che sembrava volessero indicarle la via e che subito si rituffavano nell’oscurità, rischiarata dalla luce dei pochi lampioni e dal biancore riflettente della bruma. Ebbe la sensazione che Elvira fosse da tutt’altra parte e che ad aver sbagliato strada fosse solo lei, attratta da false piste e forse dalla voglia di perdersi una volta per tutte, di farla finita con quella ricerca continua, con quella sorella svanita, con quei ricordi ossessionanti che nel bene e nel male le avevano condizionato l’esistenza. Anni buttati. Anni di guerra continua. Ma che diamine stava pensando. Maledetta la nebbia e i dubbi che insinua. Sì, l’avrebbe ritrovata comunque, la sorella amata. Insieme sarebbero tornate a casa, al calduccio, e avrebbero sfogliato le fotografie in bianco e nero dei loro cari.

Umh! Floris (sindaco di Cagliari) ha firmato con Soru (presidente della Regione Sardegna) l'accordo sulla costruzione del museo della civiltà nuragica "Betile" nel quartiere di Sant'Elia, a Cagliari. Un quartiere abbandonato a se stesso dall'incuria dei politici locali, un borgo ricco di bellezze e di gente per bene che meriterebbe ben altro che degrado e isolamento. La pioggia di finanziamenti che arriverà per il Betile servirà anche a riqualificare il quartiere.

Solo questa considerazione basterebbe a giudicare positivo, utile e buono l'accordo.

Eppure sono convinta che sotto ci sia dell'altro. Uno scambio. Floris firma per il museo voluto da Soru e Soru cosa promette? Nessuna obiezione e ostruzione della Regione sui progetti di Floris a proposito di nuovo stadio Sant'Elia e parcheggi multipiano al Poetto? Oppure la cessione di qualche bene prezioso del nuovo, recente demanio regionale?

Quien sabe?

E le opposizioni in Consiglio comunale, che dicono?

La sinistra della CGIL


L'assemblea di militanti della Cgil, convocata a Roma il 23 luglio 2008, si conclude con i seguenti punti comuni presentati dalla Presidenza.

1.
L'andamento della trattativa in corso, le posizioni assunte dalla Confindustria e dal governo, non lasciano spazi a mediazioni: un accordo non è possibile. Governo e Confindustria hanno parlato di complicità nazionale tra imprese e lavoro. Il confronto e la contrattazione si basano sulla rappresentanza di specifici interessi che cercano, quando è possibile, terreni di mediazione più avanzati. Il concetto di "complicità" è la riproposizione ideologica della totale comunanza di interessi tra capitale e lavoro, cioè della totale subalternità del lavoro all'impresa.
La vicenda del contratto del commercio è emblematica; ai lavoratori del settore e alla Filcams-Cgil vanno il nostro sostegno e solidarietà che si dovranno caratterizzare nella mobilitazione e nella lotta sindacale.

2.
La caduta dei salari, la precarietà e il peggioramento delle condizioni di lavoro sono il portato della crisi del capitalismo liberista in Italia e nel mondo. Tutta la globalizzazione oggi mostra le sue contraddizioni enormi. Le enormi ingiustizie e disparità sociali che essa ha prodotto vanno affrontate con misure di cambiamento radicale in Italia e in Europa. Di fronte all'aggravarsi progressivo di tutti gli indicatori economici del nostro paese, occorre una risposta che superi i tradizionali canoni della concertazione, della moderazione salariale, dell'accompagnamento alle soluzioni di mercato. Occorre ripristinare l'intervento pubblico e il coordinamento pubblico nelle politiche economiche. Si devono ripristinare e riorganizzare le funzioni dello stato sociale. Bisogna contrastare a fondo la precarietà del lavoro. Bisogna aumentare rapidamente il valore reale delle retribuzioni e delle pensioni. Occorre una lotta a fondo all'evasione fiscale e alla speculazione finanziaria nel quadro di una complessiva politica di redistribuzione della ricchezza. Sono questi gli elementi fondanti di una nuova politica economica e sociale che faccia uscire l'Italia dalla stagnazione e dalla crisi.

3.
Punto fondamentale è la riconquista della piena autonomia rivendicativa del sindacato a partire dal ruolo centrale che devono avere i contratti nazionali, sia per aumentare il valore reale delle retribuzioni, sia per rafforzare ed estendere i diritti e i poteri del mondo del lavoro. A maggior ragione non sono accettabili intese nazionali che programmino la riduzione del potere d'acquisto dei salari. Il contratto nazionale deve difendere e aumentare il potere d'acquisto delle retribuzioni. Nel caso di crescita improvvisa dell'inflazione, occorre garantire ai salari e alle pensioni una forma di copertura automatica del potere d'acquisto.
Occorre cambiare tutta la legislazione sul lavoro riaffermando il valore e la centralità del contratto a tempo indeterminato. Occorre respingere l'offensiva del governo e della Confindustria che, nel nome di un legame sempre più stretto tra salario e produttività, mette in discussione il contratto nazionale e tutta la contrattazione. Bisogna impedire che la salute e la sicurezza dei lavoratori siano sacrificate continuamente sull'altare del profitto e della produttività. La salute di chi lavora viene prima di qualsiasi cosa e tutta l'organizzazione del lavoro deve cambiare per garantirlo.

4.
Il governo ha scatenato un attacco frontale a tutti i diritti del mondo del lavoro, e più in generale, ai diritti delle persone, cavalcando spinte xenofobe e razziste, aggredendo i diritti dei migranti, delle loro famiglie, dei loro figli. Così vengono messi in discussione le stesse basi costituzionali della convivenza civile nel paese, mentre sul piano sindacale l'obiettivo diventa quello di liquidare la contrattazione collettiva, sull'onda della politica di deregolazione sociale dell'Unione europea.. Con il Decreto 112 e con le altre misure annunciate si arriva alla ulteriore estensione del precariato e dell'insicurezza nel lavoro e a preparare un nuovo attacco all'articolo 18. L'aggressione ai diritti del lavoro pubblico, che prepara una nuova ondata di privatizzazioni e riduzioni di organici nella scuola e nei pubblici servizi, va con altrettanta determinazione respinta. Occorre impedire che la campagna sui fannulloni, chiaramente strumentale rispetto all'obiettivo di colpire i diritti di tutto il mondo del lavoro, divida il lavoro pubblico da quello privato. Occorre una risposta complessiva per la difesa e l'estensione dei diritti, sia per i nativi che per i migranti, sia per gli uomini che per le donne.

5.
E' necessario un profondo rinnovamento degli obiettivi e delle pratiche del movimento sindacale italiano. Il modello di sindacato generale, a cui si è ispirata la Cgil nei suoi cento anni di storia, è stato il luogo della rappresentanza sociale di tutto il mondo del lavoro e il contratto nazionale ne è stato lo strumento unificante. Una fase si è conclusa, quella della concertazione degli anni Novanta. Non si può uscire da essa scegliendo di trasformare il sindacato confederale in un sindacato di mercato, aderente ai bisogni di competitività delle imprese e privo di capacità contrattuale. Noi non vogliamo la trasformazione del sindacato confederale in un agente di servizi, di collocamento, di attività economiche. La lotta politica nel sindacato per affermare la partecipazione, la democrazia, il conflitto è quindi indispensabile e su questo trovano un impegno comune i partecipanti all'assemblea. E' necessario che l'azione sindacale sia sottoposta a rigorose regole democratiche, sia nella formazione e nella misurazione della rappresentanza, sia nella decisione dei lavoratori sulle piattaforme e sugli accordi. Per questo è necessaria una legge sulla democrazia sindacale.

I partecipanti all'assemblea ritengono necessario che il movimento sindacale e in ogni caso la Cgil promuovano in autunno una vasta mobilitazione per respingere l'attacco ai diritti del lavoro, per difendere il salario e il diritto alla contrattazione, per dire basta alla continua aggressione alla salute e alla sicurezza del lavoro. Tale mobilitazione deve arrivare fino allo sciopero generale.
I promotori dell'assemblea decidono di darsi appuntamento per settembre, sulla base dell'andamento del confronto tra organizzazioni sindacali, Confindustria e governo.


Roma, 23 luglio 2008

Paolo


Già fosti trepida foglia

che l'alba tinge di rosa, luna,

ma prima fosti perduta in quello

che non spegne la vita,

ma in ampia meraviglia

d'aspre luci e languenti, la rinnova,

chiarissimo fondo della notte.



Cosa inseguivo nel gelido deserto

delle strade, dei rovi, e dei tacenti

uccelli? Fui freddo di serena

brezza, fu completo il silenzio

nel sibilo dei grilli.

xxxxxxxxxxxxxxx Le case

romite erano al vento e tacita

la luna premeva alle finestre.

Pier Paolo Pasolini



C'eravamo tutti. Quando eravamo felici.
Le canzoni degli Aphrodite's child
erano la colonna sonora di una vita in cui
le estati erano dai capelli rossi
e dalle abbronzature precoci.
Le madri e i padri erano più
giovani di quanto lo eravamo
noi dieci anni fa.
Non pensavano alla morte.
Nessuno di noi ci pensava. Ma era lì,
nascosta dietro le porte degli anditi.
Ci odiavamo, quando eravamo
felici.
Perchè le passioni dei ragazzi sono
lame affilate che tagliano in due il capello.
Quando eravamo felici. C'eravamo tutti.

martedì, luglio 01, 2008


Da sito di MISNA

[Pubblichiamo di seguito un comunicato diffuso ieri da Firenze da 'Pax Christi Italia' sulla proposta del ministro Maroni di prendere le impronte digitali ai bambini rom, già definita “indecente” e “razzista” in un editoriale di ‘Famiglia Cristiana’ che sarà pubblicato domani, ancora disponibile in evidenza nel nostro notiziario]

“Assistiamo ormai da giorni ad attacchi sempre più duri verso i più elementari diritti umani. Prima l'obiettivo era rappresentato dall'extracomunitario in genere. Poi è iniziato l'attacco verso alcune etnie in particolare Rom e Sinti. Ora siamo arrivati all'ulteriore affinamento della discriminazione con la schedatura, attraverso le impronte digitali, dei bambini Rom. Questo, secondo il Governo è necessario per evitare l'accattonaggio e stabilire chi ha diritto di rimanere in Italia e chi no. Ricordiamo però che il 70% di questi bambini è di cittadinanza italiana. Perché discriminare solo i minori appartenenti a questo gruppo? Perché sottoporre i bimbi ad un ulteriore segno di inciviltà, in particolare da parte di una nazione che si ritiene tra le più civilizzate, esportatrice di democrazia e di giustizia? Siamo convinti che combattere lo sfruttamento dei bambini sia una priorità, ma solo attraverso un metodo che garantisca la dignità della persona e tuteli i più deboli. Cosa dovremmo dire di tutte le forme di scandaloso sfruttamento infantile ormai entrate nella nostra vita comune, ad es. nella malavita, nella prostituzione, nel lavoro, nel consumo, nella pubblicità? Una democrazia matura non può pensare di risolvere i problemi con la repressione, sa che deve investire molto di più sull'educazione e sulla prevenzione. A sessant'anni dalla Dichiarazione dei Diritti Umani, e a venti anni dalla Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia prendiamo atto che poco si è fatto e si sta facendo per la loro applicazione. Anzi siamo sempre pronti ad alimentare pregiudizi nei confronti del diverso e dei più deboli e a decidere, in nome della nostra sicurezza, come e chi accettare, dettando delle condizioni troppo spesso incuranti della dignità umana. Ci siamo dimenticati la nostra storia di migranti e discriminati e pensiamo che la repressione sia l'unica forma di controllo. Attacchiamo la parte più debole della società (i bambini) per mandare messaggi alla parte più forte (gli adulti). Ancora oggi, dopo avere ripetutamente espresso la nostra posizione sui temi della solidarietà, dell'accoglienza e della legalità e condividendo la posizione della fondazione Migrantes, e di molte voci della chiesa e della società civile che denunciano un'Italia a "rischio xenofobia o peggio, discriminazione razziale", invitiamo a non tacere, a non minimizzare e a denunciare come pericoloso cancro sociale ogni politica, cultura, linguaggio, gesto, progetto xenofobo e razzista. Riteniamo che la sacralità della vita e la sua dignità debbano essere garantite dal suo NASCERE ma anche nel suo DIVENIRE e CRESCERE. Sollecitiamo pertanto la società civile alla riconquista del senso di accoglienza e giustizia, la politica alla ricerca di forme di tutela della persona e della sua sicurezza, senza per questo colpevolizzare alcuni popoli o etnie e senza calpestare i deboli; infine sollecitiamo quanti si professano cristiani a non dimenticare che il vangelo propone un amore illimitato e incondizionato al prossimo come unica via alla salvezza e alla speranza più che alla sicurezza”. [CO]

Sardi, spiegatemi un po'...



Allora, chi vuole le primarie per scegliere il futuro candidato alla presidenza della regione sarda è contro Soru, e chi non le vuole è pro Soru. E' così?

Io non la farei così facile. Nè così dualisticamente tragica? Di primarie non è mai morto nessuno. Anzi: è uno di quei processi in cui si aprono i sepolcri e tornaro pure i defunti.

Ci sono delle situazioni - chiamiamole oggettive (anche se ho difficoltà, pur stando in Italia, a immaginare situazioni para-oggettive) - in cui la diversità di vedute è un dato di fatto. Volerla mascherare fingendo un unanimismo improbabile è stupido, oltrechè controproducente.

Let's go to primarie, dunque. Senza remore e senza infingimenti.

Proviamo a tracciare due strade, però. Due strade che vanno certamente verso lo stesso obiettivo ma seguendo percorsi diversi. Non facciamo finte primarie, in cui il candidato alternativo a Soru è il classico tira-volate, come quello che nel ciclismo va avanti ma solo per sfiancare gli avversari e per preparare la vittoria del proprio capitano. Non ne abbiamo proprio bisogno.

Un'ultima cosa. Se sono primarie di tutto il centrosinistra, bene. Altrimenti, in caso di scimmiottamenti veltroniani (o ventroniani? boh), con tanto di esclusione della sinistra (cioè del futuro dell'attuale fase politica mondiale), ve le fate da soli, cari pidduini.

Folle!

Le folle, con il loro voto, possono scegliere come presidente del consiglio anche Totò Riina. Le folle hanno il diritto di essere governate da chi eleggono e quest'ultimo può continuare a deliquere perchè tutto viene sospeso.

Le folle possono decidere di prendere le impronte ai bambini zingari, e poi ai bambini campani, e poi a quelli sardi, per la loro stessa tutela: se si perdono sarà più facile rintracciarli.

Le folle hanno fatto follie durante il ventennio fascista, permettendo i crimini del regime e dando il "la" al nazismo.

Ma alle folle pare tutto normale e giustificato. Il presente appare sempre "altro" rispetto al passato. Le folle credono che quello che vivono al momento non sia fascismo, o regime.

Folle folli.

E chi tace è complice.

Chi non fa niente è complice.

Chi acconsente è doppiamente complice.

domenica, maggio 18, 2008

Processati per smog


Rinviati a giudizio per non aver preso provvedimenti contro l'inquinamento da PM10.

A dover rispondere di ciò, sono stati chiamati il presidente della Regione Toscana, Claudio Martini, e il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici.

Secondo l'accusa, la normativa europea stabilisce non solo di adottare determinate misure, ma anche di raggiungere dei risultati concreti, cioè l'abbassamento dei livelli di inquinamento da polveri sottili (PM10), causato prevalentemente dal traffico automobilistico.

Gli avvocati difensori, invece, sostenevano che a fronte dei superamenti della soglia di attenzione, nella misura prevista dalle norme UE, gli amministratori pubblici avessero solo l'obbligo di intervenire.

Il giudice gli ha dato torto.

Una buona notizia per noi, popolo di affumicati quotidiani, soprattutto se riusciremo a smuovere anche il sindaco di Cagliari.

sabato, maggio 17, 2008

Servi del potere


La categoria che produce maggiori danni al paese è quella dei giornalisti servi del potere. Non tutti i giornalisti sono servi del potere, anzi. Ma quando alcuni di essi dimenticano la propria funzione per compiacere a qualcuno è assai grave. Il loro lavoro è quello di intorbidire le acque, confondere le menti e sostenere ideologie care ai potenti di turno. E lo fanno con tanta passione e convinzione che l'aspetto remunerativo della loro prestazione passa in secondo piano. Lo farebbero anche gratis.

Il cavallo di Battaglia di questi domestici è accusare "il nemico" di non avere argomenti ma solo ideologie, vecchie e insostenibili. Ma i primi a non fornire spiegazioni e argomentazioni sono proprio loro. I primi a servirsi di una serie di risposte già belle confezionate, e valide per tutti i problemi e contesti (questa è l'ideologia) sono loro.

Basta leggere il compitino svolto sul Giornale di Sardegna di sabato 17 maggio da Forbice per capire di cosa sto parlando.

Lui ha già in tasca l'elenco dei problemi degli italiani fornitogli dalla Lega e da AN, e poi l'elenco dei partitini (piccoli e comunisti) da odiare ora et semper fornitogli da Veltroni.

E non fa altro che ripetere questa tiritera per proseguire la sua opera di informazione mirata non ai fatti ma alle ideologie dei suoi capi. Bravo Forbice. Bell'articolo. Complimenti.

Ma perchè non usa parole e idee sue?

venerdì, maggio 16, 2008

La mia luna


Così l'ho vista, l'ultima notte sul Tibet.

La luna.

Vicina, materna, e fredda come quelle madri che non possono permettersi di mostrarsi tenere e affettuose. La vita ha riservato loro sofferenze e tristezze che sembrano voler dire: sei diventata una roccia, comportati come tale.

Non è che non abbiamo sentimenti, o emozioni, sono soltanto bloccate.

Eppure splendono là nel cielo, e per i figli sono gli astri più luminosi. Anche se distanti.

740 addio


Cari ricchi, state tranquilli. Magari adesso sappiamo quanti siete e quanto avete guadagnato nel 2005; magari ci fa un po' rabbia sapere che mentre la maggioranza dei cittadini e dei lavoratori italiani ha seri problemi con le necessità "mensili", voi ve la passate assai bene; e magari ci sentiamo presi per il culo quando dai più svariati mass media deviate l'attenzione su altre (e verissime) storture, dimenticando la vostra; magari non digeriamo che le capacità e le professionalità che riconosciamo a molti di noi siano retribuite un decimillesimo di quello che prende qualche fessacchiotto senza arte nè parte.

Ma dormite pure tranquilli: nessuno di noi verrà a toccarvi niente. Forse siamo noi a doverci guardare da voi.

E comunque, anche se dal vostro punto di vista "il danno è oramai fatto", la Commissione nazionale Privacy ha ritenuto illegittima la pubblicazione in internet delle dichiarazioni dei redditi degli italiani. Va bene così. Se la legge è stata violata, è giusto ristabilirla. Tra l'altro, le argomentazioni addotte sono robuste e convincenti.

Ma la questione resta aperta. In che modo - concreto, trasparente, senza ostacoli di sorta - un cittadino può accedere ai dati reddituali dei concittadini? Tramite il Comune, come si è fatto fino ad oggi? Cioè si lascia tutto nel silenzio e nell'oblio perenne?

Una soluzione la indica lo stesso Garante della Privacy quando parla di "filtri". Se la pubblicazione in Internet non riguardasse i dati sensibili (indirizzi, numeri di telefono, composizione nucleo familiare), se per l'accesso venisse richiesta una password, una registrazione o qualsiasi altro filtro, allora potrebbe essere fattibile.

Chissà.

La risata


Le sue barzellette sono veramente idiote. Rido per educazione. Ihihihihihihihihihi

Uffa, questa vita da cani


Ho camminato tutto il pomeriggio. C'è chi beve, per dimenticare. Io cammino. Ma le passeggiate riattivano la circolazione sanguigna, così il maggiore afflusso di globuli rossi al cervello mi fa ricordare di più e meglio.

Ricordo la mia città e gli affetti che ho lasciato, la casa in cui ho trascorso l'infanzia, me e mia sorella giocare insieme e poi tirarci i capelli; ricordo i genitori che non ho ancora pianto abbastanza.

Non ho mai seguito le loro "istruzioni" per vivere. Ho scelto apposta di fare il contrario, anzi. E ora cosa ne ho avuto?

Mi aggiro per questa città, in cui abito da anni e che mi è ancora sconosciuta, così simile alla mia. Castello e Stampace, ma più ancora Villanova, via San Giovanni (con le sue processioni misteriose, tranne che per noi baschi) e via Piccioni (con le muraglie) e via San Saturnino (con gli orti nascosti).

Ripenso a te che non sorridi mentre mi dici non ci sto più.

E' duro vivere, ma ci voglio provare ancora.

Vorrei volare


Sogno spesso di volare. Piego le ginocchia e faccio un balzo in alto che mi porta sopra i tetti, sospesa sulla città. Volo. Su strade, piazze, ponti, fino al mare. Quando ne ho voglia atterro e poi di nuovo sù, con la testa tra le nuvole. E mi sembra di staccare veramente i piedi da terra, come se mi allontanassi dal mio corpo dormiente, come se mi vedessi laggiù sul letto, con il cuscino abbracciato.

giovedì, maggio 15, 2008

Come un pugile (english) suonato


Sì, lo ammetto. L'onda lunga della batosta elettorale comincia a farsi sentire sul mio umore e sulle cose che faccio. O facevo.

Mi sento come quel pugile che durante la pausa dopo la terza ripresa chiede ai secondi come sta andando e a cui quelli rispondono: se lo ammazzi, pareggi. Ecco come mi sento: un pugile suonato.

La reazione dello sconfitto è una reazione allergica a tutto ciò che gli ricorda la sconfitta: telegiornali, giornali, vespe, porte, tribune elettorali, santoro, floris, ballarò, discussioni, cene con amici, sindacato. Disgusto totale. Evito accuratamente tutto questo e mi rintano nella letteratura e in un bellissimo corso d'inglese (con insegnante madre lingua) che ho iniziato a seguire. La prima lezione è stata EROICA. La teacher ci ha fatto vedere come si usa il programma on line sul pc e ha pronunciato al microfono una frase proposta dal computer. 96 per cento di "giuistezza" nella pronuncia. Faccio anche io la prova: 97 per cento! WOW. Grandi risate e strette di mano, con quella simpaticona della teacher di Newcastle che tra una battuta e l'altra mi ha subito proposto come nuovo insegnante.

Io mi sono schermito: è stato un colpo di fortuna oppure il programma va tarato.

E se fosse invece un un effetto dei colpi presi dal pugile suonato che sono?

Poi, come dicevo, ho ripreso a leggere molto: Jonathan Littell (Le Benvole), Fosco Maraini (Ore giapponesi), Sergio Atzeni (Passavamo sulla terra leggeri), Simone de Beauvoir (I mandarini), Giuseppe Fiori (Sonetaula), Ian McEwan (Espiazione), Hannah Arendt (Quaderni e diari - 1950-1973), Umberto Eco (Dall'albero al labirinto) e Don De Lillo (L'uomo che cade). Ne ho pure qualche altro aperto (Storia della bellezza e Storia della bruttezza, di Eco) ma più che altro per consultarlo.

Insomma, tutto fuorchè politica italiana. Non ne posso più di Berlusconi, Veltroni, Lega Nord, D'Alema e pure Grillo (non è vero, da lui ci vado ancora, ma non so per quanto).

Faccio l'eremita ed esco solo per il corso di inglese. Hi, how are you. Fine, thanks. Nice to meet you. Nice to meet you, too.

Questa Italia è un Travaglio...


Ah, era questa la novità che prometteva Veltroni!? L'unità con il PDL per:

- affondare la legge 300 (Statuto dei lavoratori)

- revisionare la Costituzione

- rifare le gabbie salariali più l'alleggerimento del CCNL, e, dulcis in fundo,

- rimproverare Marco Travaglio quando ci ricorda cose vere ma sconvenienti.

A questo siamo ridotti. Nessuno si sogna di entrare nel merito delle cose affermate da Travaglio, ma tutti a condannare il tentativo di "destabilizzare l'attuale quadro politico".

Tutti tranne Di Pietro, che non sarà il massimo, ma sulla cui onestà - e senso etico - professonalità e conoscenza di alcune vicende processuali nessuno può dubitare. Almeno, io non dubito.

Qui non c'è da salvare alcun clima di collaborazione, qui c'è da scardinare la base, l'origine, i nessi della questione italiana: gli intrecci mafia-politica. E' un'operazione difficilissima e lunghissima, che non può giustificare alcuna caccia alle streghe o l'abbandono delle "correttezze" democratiche e dei valori costituzionali (tra i quali persiste la libertà di pensiero e di parola). Tutti devono essere ritenuti non colpevoli, se non esiste condanna definitiva. E io sono personalmente convinto, convintissimo, che la magistratura sa fare bene il suo dovere. Ma nella nostra politica c'è bisogno di un surplus di trasparenza, di limpidezza. Qualcuno dei nostri politici o qualche carica istituzionale hanno avuto rapporti d'affari con mafiosi? Hanno avuto strette amicizie o frequentazioni non casuali con boss della malavita organizzata? Cosa c'è di vero in tutto questo?

Penso che il cittadino abbia il diritto di conoscere i motivi a discolpa e non abbia il diritto, neppure con il suo libero voto, di mettere a tacere il tutto.

Ma sono quasi tutti lì a condannare Travaglio, imprecare contro la lesa maestà, inveire su chi attenta al nuovo clima di italica concordia...

Bene, stiamo attenti. Perchè penso che gli obiettivi veri di centrodestra e centrosinistra siano quelli che indicavo all'inizio del post: una ristrutturazione che tolga un bel po' di diritti ai lavoratori e incrementi così i profitti attesi.

E poi accusano la sinistra di essere ideologica o di volere la lotta di classe. Questa che stanno facendo, come la chiamano, loro?

Who's Zapping

Zappiamo Forbice

Giuro che non mi sono fatto condizionare da Grillo. Ero convinto già di mio.

Insomma, quel tale Forbice (nomen omen) che conduce la trasmissione radiofonica Zapping, sì, quello che quando risponde al telefono emette continuamente con la bocca un fastidioso suono ("mm"..."mm"..."mm"), proprio lui, ecco, io l'avevo capito che era un censore di parte (non è l'unico, comunque, bisogna dargliene atto). Uno che dice di essere obiettivo e imparziale, basta che non gli si accenni a qualcosa che sfugge alla sua comprensione.

Egli non sopporta chi lo contraddice o chi gli fa smottare sotto i piedi le sue convinzioni, evidentemente non proprio solide. E allora taglia, o sfotte gli interlocutori telefonici (che devono essere almeno laureati a Cambridge con il massimo dei voti per godere della sua ossequiosa stima).

Bene, ora ne ho un'altra conferma. Il signor Forbice scende (quasi) al livello verbale di Sgarbi per smontare l'affermazione di un suo ascoltatore a proposito di Grillo e del VDay del 25 aprile.

Me l'aspettavo. Da lui. Sentire per credere. Cliccate qui

venerdì, aprile 25, 2008

De su bilinguismu


(La foto è di Francesco Ridolfi)
Esti sa cultura a creai is fueddus o funti custus a creai sa cultura? Cantus fueddus bi funti in sa lingua sarda? E una lingua commenti sa nostra, chi esti una lingua naraus agropastorale, podiri contai de matematica o fisica o traduxi una poesia de Pasolini? Teneus fueddus chi serbinti a custu?

No esti, po casu, chi su sardu chi oleus esti una lingua mitica o illusoria?

Su sardu esti sa lingua de is affettus e de is amoris nostrus, sa lingua de mammai e de iaia, de nonnu e de is arrugas aundi giogammus. Candu torraus a domu chistionaus in lingua con su parentadu, ma non allegaus de filosofia (commenti si narada in sardu "filosofia"?) o de atrus scimprorius: fueddaus de nosus, mancai fuxilaus, ciacciarraus, o chistionaus de sa terra e de is angionis, chi funti cosas importantis ma atras. No sciu si mi fazzu cumprendi o si seu nendi calincunu sciolloriu, ma su sardu è lingua de nicchia (mi paridi chi si narada "accaiou") e in custa nicchia doppeus atturai. Chi sa lingua sarda torridi a essi lingua de su coru, ma no de intellettu.

Inzandus, no seu seguru chi su bilinguismu fezzada a su casu nostru. Podeus provai, ma sciendi chi su rischiu esti de inventai unu sardu-italianizzau, e po cussu po cussu b'esti giai s'inglesu.



La cultura crea le parole, o sono le parole a crearla, ad aumentare le nostre conoscenze? Il vocabolario sardo quante parole ha. E con queste, che sono nate all'interno della nostra cultura agro-pastorale, riusciremmo a parlare di matematica, di fisica, o tradurre una poesia di Paolini? Abbiamo parole per farlo? Non sarà invece che abbiamo il mito o l'illusione di una lingua sarda adatta a ciò?

Penso che il sardo sia la lingua degli affetti, la lingua delle mamme e delle nonne, la lingua parlata nelle strade della nostra infanzia. E' la lingua che usiamo quando torniamo a casa (a su connottu) per parlare di noi e dei nostri problemi, o per spettegolare o raccontare storie e barzellette, per sapere della terra e degli agnelli, ma non per parlare di filosofia. Non so se sono chiaro, e se dico fesserie: il sardo è lingua di nicchia e in questa nicchia dobbia stare: la nicchia del nostro cuore e non dell'intelletto.

Dunque non sono sicuro che il bilinguismo sia proprio necessario. Possiamo sperimentarlo, sì, ma sapendo che rischiamo di fare un'operazione machiavellica di sardo-italianizzato; ma allora già ci basta l'inglese.
(La foto è di Francesco Ridolfi)

domenica, marzo 30, 2008

Nuova mineraria Silus: la Provincia di Cagliari accanto ai lavoratori

COMUNICATO STAMPA
Cagliari, 29 marzo 2008 - Dopo la decisione della Commissione europea, che ha ritenuto illegittimi i 98 milioni di euro di aiuti concessi dalla Regione a favore della Nuova mineraria Silius, l’amministrazione provinciale di Cagliari ha promosso per lunedì 31 marzo, alle ore 15.00 (presso il Palazzo Regio di Cagliari) un incontro istituzionale con le rappresentanze dei lavoratori (RSU e Territoriali) dell’ex Nuova mineraria di Silus (che ha chiuso i battenti lo scorso gennaio), il sindaco di Silius e il presidente della Comunità montana del Sarrabus-Gerrei, per definire una strategia comune a difesa della produttività della miniera e del 70% dei lavoratori dell’ex Nuova mineraria che si trovano ora in mobilità e che chiedono il passaggio diretto alla neonata società costituita dalla Regione (Fluorite di Silius) per lo sfruttamento della miniera.

venerdì, marzo 07, 2008

La strage degli innocenti

Altri 5 morti sul lavoro. La strage continua. Vorremmo avere più parole, e migliori, per raccontare il nostro dolore e lo sdegno. Ci pervade questo senso di impotenza davanti a una società "civile", come quella in cui viviamo, che consente 4 morti al giorni per ogni giorno dell'anno per tutti gli anni; che li permette, che non trova rimedi. E che rimedi si possono trovare? Ditecelo voi. Qui, mentre gli operai muoiono, c'è chi propone di incentivare il ricorso agli straordinari, chi chiede minori imposte anche per le imprese, e non certo per investire in sicurezza, per aumentarne i livelli. No.

Ci si vuole far credere che le morti sul lavoro sono una tragica fatalità e che gli imprenditori, i padroni, sono addolorati. E chi lo mette in dubbio? Anche noi siamo sicuri che stiano piangendo. Ma è il sistema che non funziona, non c'entra niente la fatalità. Nei sistemi economici come il nostro, incentrati sul liberismo più sfrenato, la struttura sovrasta le singole volontà degli imprenditori nostrani e impone loro politiche economiche basate su risparmi eccezionali, su costi sempre più ridotti, sullo sfruttamento selvaggio dei lavoratori, unico a garantire alti saggi di pluslavoro. Nelle fabbriche si lavora come schiavi, e nelle catene della grande distribuzione è anche peggio.

Allora è necessario che la politica metta un freno a tutto ciò, imponendo (ripetiamo: imponendo) regole e rispetto delle leggi e limitando la libertà degli imprenditori di commettere omicidi bianchi. La libertà dei padroni va limitata, quando contrasta col bene e con la sicurezza dei singoli e della società. Lo dice quella Costituzione che, appunto, le destre, con Montezemolo - e non solo - vogliono cambiare.

Non permettiamoglielo.

Vogliamo lo sciopero generale.