martedì, febbraio 23, 2010

Giuliano Ferrara suona la ritirata?

«Una corte è una corte, e i cortigiani sono vil razza dannata, lo si sa dal melodramma. Ma dietro il fumo divisivo, l'avvelenamento dell'aria, la guerra di tutti contro tutti, c'è sempre un difetto di conduzione che risale al principe. Berlusconi non va in parlamento da quando presentò alle camere il governo, e sono quasi due anni. Non fa un discorso impegnativo da mesi e mesi. Non tiene ferma la barra e non la fissa con chiarezza su una rotta di iniziative e di riforme discernibile, che sia il segno esterno chiaro del significato del suo comando, della sua leadership». Non è un giornale di quelli che il premier definisce «disfattisti» a stilare questi giudizi ma «il Foglio», per la penna dell'Elefantino Giuliano Ferrara, preoccupato del rischio di una ingloriosa decadenza della leadership del cavaliere. Dunque ci si può credere, la fine dell'era berlusconiana sta entrando nell'ordine di idee dei collaboratori più prossimi del premier, non solo nei desiderata degli avversari più lontani. Quanto però a intuire, di questa fine, le modalità possibili, o a delineare gli scenari del dopo, qui l'immaginazione politica difetta, a destra e a manca. E a destra e a manca azzarda più la previsione di un'erosione interna che quella di una spallata esterna: una corte è una corte, e in linea con la regressione dell'Italia da democrazia costituzionale a monarchia assoluta sarà utile rispolverare le reminescenze shakespeariane sul marcio, il verminaio, la decomposizione che implacabilmente maturano sotto l'apparente splendore delle corti, attaccando prima prima o poi il corpo del re e il corpo del popolo nella loro unità mistica e nella loro identificazione speculare.
Anche la saggistica d'opposizione la pensa così. A immaginare la fine dell'era berlusconiana si spingono due libri recenti, «Berlusconi passato alla storia. L'Italia nell'era della democrazia autoritaria» di Antonio Gibelli, appena uscito da Donzelli, e «La bolla. La pericolosa fine del sogno berluisconiano» di Curzio Maltese (Feltrinelli). Tutti e due, con maggiori cautele il primo e con maggior sicurezza il secondo, leggono i segni e i segnali del tramonto seminati dai cosiddetti «scandali» dell'ultimo anno (Maltese: «La favola nera di Silvio Berlusconi è finita con la regina che grida al re nudo»), tutti e due lo immaginano venato delle stesse tinte fosche che hanno caratterizzato l'alba e il mezzogiorno del berlusconismo, tutti e due lo affidano più a una consunzione o autoimplosione interna che a una riscossa della sinistra. Per Gibelli, «quel che si può intravedere è una maggiore scollamento della maggioranza», e «quel che si può prevedere è il declino biologico del leader», inesorabile contrappasso rispetto all'investimento da lui compito sulla propria persona e la sua vitalità: «esattamente come accadde nel caso di Mussolini, quando i segni del suo declino corporeo furono interpretati come indizi del suo tramonto politico». E come nel caso di Mussolini, «è assai probabile che gli italiani diventino in maggioranza antiberlusconiani non prima ma dopo che il leader sarà tramontato». Prospettiva deprimente, che non solo riporta a galla il carattere nazionale del conformismo, ma dice quanto profonda sia l'impronta dell'egemonia berlusconiana sul ventennio, e quanto complicato sia disfarsene: «Chi si illude che tutto si risolverà con la fine di Berlusconi, magari accelerata dagli scandali, commette - scrive Maltese - lo stesso errore di chi alla fine della prima Repubblica si illudeva che bastasse mandare in galera o a Hammamet qualche leader corrotto. Dimostra di non capire quanto e come ha agito il berlusconismo nella società. Non è stato il fascismo, ma ha svuotato la democrazia, nei palazzi delle istituzioni come nelle teste dei cittadini. Non è stato facile arrivare a tanto e non sarà semplice uscirne». Maltese ricorda del resto, e fa bene, quanta incredulità suscitasse nel '93-'94, fra i politici e i commentatori di sinistra, l'ipotesi della scesa in campo prima, e poi della vittoria di Berlusconi; e quando scrive che ancora oggi, per quanto possa sembrare assurdo, «Berlusconi resta un oggetto misterioso per i leader della sinistra», mette il dito sulla piaga di un'opposizione che per vent'anni, oscillando fra demonizzazione e compromesso, non ha mai saputo prendere la misura giusta del fenomeno e la mira giusta del contrattacco.
Vent'anni però, per quanto si possano contrarre nella memoria di noi che li abbiamo vissuti e patiti quotidianamente, dal punto di vista dell'analisi storica sono un tempo sufficiente a delineare un'epoca. Vent'anni durò il fascismo, dodici il nazismo, e in molti meno si sono decisi processi storici di pari entità. Dunque, non solo dal punto di vista politico ma anche dal punto di vista storiografico, il berlusconismo, scrive Gibelli, «è venuto il momento di prenderlo sul serio»: non meno dell'«età giolittiana», l'«Italia berlusconiana» appare ormai compiutamente definita da un insieme compatto di coordinate riconoscibili.
Quali? Galoppando fra la genesi (negli anni 80 di Craxi), l'esordio (il dopo-Tangentopoli), il successo, gli alleati (Lega e cattolicesimo tradizionalista in primo luogo), Gibelli le riassume in modo essenziale, con il linguaggio e la sintesi di una lezione di storia rivolta a chi verrà, o a chi nell'Italia berlusconiana è nato e cresciuto e non ne ricorda o non ne immagina un'altra. Personalizzazione e spettacolarizzazione della politica, ridimensionamento del ruolo dei partiti tradizionali a vantaggio di movimenti a leadership carismatica, affermazione di tendenze antipolitiche «più durature e tenaci» di quelle affiorate in precedenza nella storia nazionale, primato della televisione nella formazione del costume e dell'opinione pubblica: qui sta la fenomenologia di quello che può a buon diritto definirsi «la manifestazione per ora più compiuta della politica post moderna» nell'Occidente democratico. Un - triste - primato in cui l'Italia torna a rivelarsi il laboratorio sintomatico di una tendenza più ampia, occidentale appunto, alla de-formazione della democrazia liberale costituzionale. Deformazione che passa sotanzialmente per l'abbattimento della divisione dei poteri, il loro accentramento in una persona sola, il ritorno di una sovranità assoluta, cioè affrancata dal controllo dei contropoteri, la magistratura in primo luogo. E' quello che sappiamo dalla cronaca. L'occhio dello storico è d'aiuto però su un punto cruciale, sul quale l'occhio dei politici e degli osservatori invece indigia e oscilla da anni: la congruità del termine «regime» per definire il berlusconismo, la legittimità del paragone con il fascismo, l'autoritarismo, il totalitarismo. Con precisione, scrive Gibelli che se è «improprio parlare di una dittatura in senso classico, è insostenibile la tesi che ci si muova nella normalità democratica»: trattandosi ormai piuttosto di una «democrazia illiberale». E ancora: «L'uso di termini come autoritarismo e totalitarismo viene spesso boillato come manifestazione di un allarmismo ingiustificato e controproducente. Quando non è frutto di conformismo, questo atteggiamento discende da un equivoco. E' chiaro che i due termini possono essere applicati solo a patto di mettere l'accento sulle forti differenze di significato rispetto ai loro usi classici. Autoritarismo non può significare in questo caso uso prevalente della forza repressiva dello Stato». Ma nel discorso politico berlusconiano «è possibile cogliere una vocazione in senso lato totalitaria»: ad esempio nella fobia per il contraddittorio, o nella sostituzione del «popolo - il tutto - al partito - la parte. Così come, se è evidente che «Berlusconi non è né Hitler né Mussolini», comuni ai tre sono elementi inquetanti di uso del carisma, dell'immagine, della fascinazione personale. Quanto basta per tentare di uscire dal ventennio prima che imploda da sé.
POLITICA O QUASI

Berlusconi, storicamente parlando

Ida Dominijanni

il manifesto 23/2/10



venerdì, febbraio 19, 2010

L'ITALIA IN VAL DI SUSA

Quanto è accaduto in Val di Susa nella notte tra mercoledì e giovedì è terribilmente significativo dell'Italia di oggi.
Per certi versi tragicamente esemplare. Mentre il paese intero sprofondava nel fango per lo scandalo della Protezione civile, esattamente nel momento in cui a Roma i giudici della Corte dei Conti denunciavano la crescita esponenziale della corruzione, lo Stato si scatenava, con una violenza del tutto sproporzionata e ingiustificata, contro una popolazione che - tra i pochi - tenta di contrastare la logica dell'affarismo e la devastazione del territorio. Comandava la piazza - guarda chi si rivede - lo stesso alto funzionario per il quale i PM titolari dell'inchiesta genovese sul «macello» della scuola Diaz avevano chiesto la condanna a un anno e mezzo di reclusione con l'accusa di aver tentato, come il suo capo De Gennaro, di occultare le responsabilità. E che con De Gennaro era stato assolto, con una sentenza che sollevò scandalo.


Non stupisce che anche questa volta le testimonianze parlino di un accanimento particolare nei pestaggi, con scene simili a quelle di Genova 2001: l'uso feroce dei manganelli, la gente a terra malmenata da grappoli di agenti inferociti, la caccia all'uomo anche quando gli assembramenti erano sciolti, complice l'oscurità e l'assenza di giornalisti. Risultato: un giovane in gravissime condizioni per un trauma cranico con emorragia, una donna di Villarfocchiardo con fratture plurime al volto e alle costole e sospette lesioni interne, decine di feriti curati dai medici in valle per timore dell'arresto in ospedale.
Il tutto per realizzare un'impresa inutile, futile se non truffaldina come ben sa chiunque si sia occupato da vicino della cosa: un carotaggio dal puro significato simbolico, in un terreno geologicamente già ben conosciuto e analizzato, fatto con l'unico scopo di mostrare burocraticamente a Bruxelles che qui si «fa qualcosa» e raccattare con un espediente i fondi europei stanziati. Un dispendio di denaro pubblico per intercettare flussi finanziari da redistribuire nella rete delle imprese e dei professionisti coinvolti in attività prive di utilità reale.
C'erano, dunque, in un «punto solo» - nello spazio sintetico di un episodio - un po' tutti gli ingredienti della crisi italiana. Di questo lungo, strisciante 8 settembre della repubblica, senza Alleati e senza partigiani, in cui tutto sembra «andare giù» nel fragore del gossip e nell'impotenza delle azioni. C'era l'arroganza cieca di un potere logoro ma ancora capace di far male. C'era il ritorno arrogante, preponente, del nostro passato prossimo non risolto né emendato: la vergogna cruenta di quel G8 genovese, incrociata e sovrapposta alla vergogna sordida del mancato G8 sardo, l'uno all'insegna delle torture (impunite) della Diaz e di Bolzaneto, l'altro delle escort del Centro massaggi romano... C'era, infine - a far da capro espiatorio e a testimoniare un residuo di dignità - la solitudine politica di un pezzo di «popolo» che comunque resiste alla logica che ci ha portati fin qui. E non accetta la riduzione della propria comunità a merce da svendere e mettere a profitto.


Marco Revelli
il manifesto 19/2/10

NO TAV Notte del 18-02-2010. Il Blocco della valle di Susa

giovedì, febbraio 18, 2010

Fonsarda, Tuvixeddu



Venerdì 19 febbraio, al T-Hotel di Cagliari (ore 17,30), Franco Melis presenta il suo ultimo libro: "Quei giorni a Fonsarda".
Si tratta di una raccolta di "storie" che hanno come sfondo comune, incombente e pregnante, la lotta degli abitanti di un quartiere di Cagliari che si svolse alcuni decenni fa contro la costruzione di alcuni palazzoni, a scapito e danno di orti e mandorleti. Fu a mio avviso la prima battaglia che affrontava i temi del diritto dei cittadini a partecipare alla discussione e alle decisioni politiche che li riguardavano. Una sorta di bilancio partecipativo alla Porto Alegre; una specie di lotta no-global antesignana, che mirava a tutelare soprattutto la qualità dell'ambiente e delle relazioni tra le persone, che difendevano i "luoghi" degli incontri, delle chiacchierate, insomma della socialità del quartiere.
Da quelle battaglie - che si intrecciavano con le lotte studentesche e operaie degli anni '70 - nacque e si irrobustì una generazione di "sognatori concreti", li chiamo io, che imparò a mettere lingua su ciò che non ritenevano giusto, e di denunciare, spesso inascoltati, il malaffare e le commistioni insane all'interno dei palazzi della politica cittadina.
La lotta degli abitanti di Fonsarda, così si chiama il quartiere "incriminato", torna in auge quarant'anni dopo nel momento in cui, a Cagliari, si svolge un'altra simile battaglia contro i palazzoni: quella di Tuvixeddu.
I temi sono gli stessi, con in più la memoria storica di un'intera città da difendere, con il suo paesaggio e il suo passato. La necropoli punica più grande e importante del Mediterraneo rischia di essere "valorizzata" alla solita maniera della lobby del mattone: ti faccio il parco a mie spese, però intorno mi costruisco 28 unità immobiliari, per 14.630 metri cubi di costruzioni.
Gli amministratori locali, dando l'impressione di essere avvezzi a tutelare e favorire i privati piuttosto che l'interesse pubblico, usano la seguente tecnica: non si occupano minimamente di valorizzare gli spazi pubblici, che anzi lasciano in condizioni di abbandono evidente, e poi plaudono all'intervento del privato grazie al quale quello spazio pubblico ritorna, in parte, fruibile. Tutti felici e contenti. Punici, cagliaritani e costruttori.
Intorno a Tuvixeddu si sta svolgendo uno scontro a colpi di carte da bollo e di interventi parlamentari che, a gamba tesa, vorrebbero favorire gli interessi privati, attraverso un provvedimento che toglierebbe la competenza sui nullaosta paesaggistici alle sovrintendenze, in barba al Codice Urbani, per restituirla a comuni e regioni.
La differenza tra Fonsarda e Tuvixeddu mi pare però essere proprio sulla quantità e qualità del coinvolgimento popolare, degli abitanti del quartiere, dei movimenti e dell'intera comunità cagliaritana.
Dove siete, cari lottatori di Fonsarda?
Per capirne un po' di più, e per ritrovarli, domani pomeriggio vado a sentire Franco Melis nella presentazione del suo "Quei giorni a Fonsarda", venti storie inventate, forse tutte vere.
  

mercoledì, febbraio 17, 2010

«Ma il G8 a La Maddalena era giusto»


Intervista a Stefano Boeri, l’architetto che progettò il nuovo Arsenale de La Maddalena

Stefano Boeri, lei è l’architetto a cui la protezione civile e la Regione Sardegna hanno affidato la progettazione del nuovo Arsenale in vista del G8 poi spostato a L’Aquila. Le era mai venuto un dubbio su quello che accadeva attorno a lei?
La vicenda è iniziata come una sfida bellissima. Si trattava di usare un grande evento come il G8 non solo per adattare spazi abbandonati, ma per rimettere a posto un territorio inquinato, all’interno di un posto meraviglioso come l’Arcipelago di La Maddalena. Di più: si voleva usare questa ristrutturazione per lanciare un nuovo modello di sviluppo economico e sociale per quel territorio, dalle servitù militari al turismo sostenibile legato alla vela, all’artigianato nautico. Questa era la sfida lanciata nel dicembre 2007 da Renato Soru, condivisa con Prodi e Bertolaso. Quando mi è stato chiesto di partecipare, ho accettato con entusiasmo.
Ora che ha letto le intercettazioni?
Vivo da una parte una rabbia fortissima, perché queste ipotesi di corruzione rischiano di oscurare un anno di lavoro appassionato e onesto di decine di giovani tecnici, architetti e anche operatori della protezione civile. E dall’altro la soddisfazione di vedere che almeno le opere che abbiamo seguito sono pronte e saranno tra breve tempo usate. Insomma, la gran parte dei soldi impiegati non sono andati nelle tasche sbagliate.
Ha avuto mai qualche sospetto? Che alla velocità fosse immolata la trasparenza?
Se avessi avuto una prova di quanto si legge oggi sui giornali, sarei andato dai magistrati. Del resto, le intercettazioni fanno capire che tutto si è svolto con accordi che non erano visibili a noi che passavamo le giornate a disegnare e poi sul cantiere a verificare i disegni. Sinceramente, non sospettavo nulla del genere.
Ha avuto modo di conoscere Bertolaso, Balducci e De Santis?
Certo. De Santis è stato con noi per un periodo brevissimo. Balducci, l’ho conosciuto come soggetto attuatore delle opere e poi come presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Bertolaso l’ho incontrato molte volte, era una figura trainante di tutta l’operazione.
La procura scrive che c’è stato lo sventramento dell’isola.
In tutta serenità posso dire che è stato un lavoro di straordinario recupero ambientale e paesaggistico. Abbiamo progettato il recupero di 150mila metri quadri di banchine inquinate da idrocarburi e amianto, ristrutturato tre grandi edifici abbandonati e abbiamo costruito meno di quanto abbiamo demolito, stando sempre sotto i dieci metri di altezza, rispettando i criteri del piano paesaggistico della Sardegna voluto da Soru. Permettemi anche di dire che le strutture sono bellissime, un esempio di rispetto dell’ambiente. I lavori erano stati chiusi in tempo per il G8.
Immagini filmate recentemente mostrano una struttura abbandonata. Che rischia di diventare l’ennesima cattedrale nel deserto.
Sono immagini capziose, che fanno vedere una scrostatura di cinque metri di intonaco dovuta a scarsa manutenzione di un unico soffitto. Non faccio il capocantiere, ma assicuro che gli edifici sono oggi integri, è normalissimo che ci siano problemi di manutenzione in una zona di mare. Ora c’è un gestore che sta preparando gli edifici per la prossima Vuitton Cup di maggio. Da lì partirà la stagione turistica. Per quel che riguarda l’Arsenale, la parte che abbiamo seguito come progettisti, mi pare che le cose possano partire bene. Del resto, nel caso si fosse tenuto il G8 era previsto che il gestore cominciasse a lavorare dopo un anno di messa a punto degli edifici.
Non è una struttura sovradimensionata per la Vuitton Cup?
No. Ci saranno dieci equipaggi, e almeno 500 persone tutti i giorni a lavorare. Questo evento avrà un ruolo trainante per il nuovo polo nautico.
Cosa pensa della legge sulla protezione civile spa?
Bisogna ragionare sul perché si ricorre all’emergenza in casi che emergenze non sono. Anche se il G8 per la Maddalena era un’urgenza.

Sara Menafra



martedì, febbraio 16, 2010

Il massaggio del Tg1


Lungo spot promozionale sulle meraviglie del famoso Salaria Sport Village. Black-out, invece, sull'indignazione degli aquilani. È la mistura un po' indecente servita agli italiani dal Tg1 di Augusto Minzolini, alle otto di domenica sera. Il più seguito telegiornale nazionale non ha voluto mostrare le immagini, diffuse dagli altri tg, dei terremotati arrampicati sulle macerie con la rabbia scritta sui cartelli («io non rido»). Qualche flash, ma solo a notte fonda. Oscurare il luogo del dolore, cancellare dallo schermo l'indignazione provocata dalle frasi degli imprenditori intercettati. E scegliere di illuminare il luogo del benessere, accompagnando il pubblico in un rassicurante e confortevole tour nel paradiso del relax. Per dimostrare l'innocenza di Bertolaso, proprio quando le ultime intercettazioni alzano il velo su favori e favorite al servizio del grande capo.
Le «problematiche alla cervicale» del sottosegretario Guido Bertolaso, tessera di platino del centro benessere Salaria Village, hanno trovato accurata ospitalità nel Tg1 della sera (domenica, edizione delle 20). L'inviata di Minzolini, tra cyclette e vasche idromassaggio, ha intervistato le addette al relax, con voce fuori campo impegnata a spiegare come «una volta al mese» il capo della protezione civile si sottoponesse, «in una cabina dalla porta scorrevole, senza chiavi», alle cure del corpo stressato.  Sappiamo tutto di Francesca, delle sue referenziate qualità professionali, e nulla sulle telefonate tra i manager dei Grandi Eventi per abbigliare adeguatamente le brasiliane, o per ripulire il luogo degli incontri. Meglio evitare i dettagli scomodi e servire, alla grande platea della tv, l'appello finale di un dipendente, giustamente preoccupato di «mantenere i posti di lavoro». Uno spot non avrebbe potuto fare meglio.
Quanto al resto dell'inchiesta sulle ruberie degli «attuatori» dei Grandi Eventi, quasi niente, a parte le ragioni degli avvocati difensori degli indagati. Persino il gran ciambellano, Gianni Letta, si è dovuto accontentare di una fugace citazione (neppure un viva voce) sul che fare della società SpA della protezione civile, al centro dello scontro di potere interno alla maggioranza di centrodestra.
Ma peggio di tutti è andata alla gente dell'Aquila, molto arrabbiata con quei manager messi di buonumore dalla tragedia del terremoto. I sette milioni di telespettatori del Tg1 non hanno visto il cancello del centro storico dell'Aquila aprirsi sotto la spinta dei terremotati, non hanno visto la polizia schierata che prova a impedire lo sfondamento delle transenne, per poi lasciar passare le persone. Se ne sono andati a letto ignoranti e abbuffati di «fiori e frappe» dedicati ai cuori di S.Valentino e ai carri del carnevale.
Quando si parla, spesso a sproposito, di par condicio, assistiamo alla mobilitazione generale degli opposti schieramenti. Toccare i politici, mettere in discussione i talk-show di sicuro infiamma il dibattito sulla libertà di informazione. Se invece l'informazione la manipoli ogni giorno, ci fai l'abitudine e magari nessuno se ne accorge.

Norma Rangeri
il manifesto
16/2/10
 

sabato, febbraio 13, 2010

Contro di me scelte di guerra


Nella sua storia l’umanità è stata spesso testimone di intrighi usati dalle potenze dominanti come strumento per la conservazione del potere. Si potrebbero citare numerosi esempi, dai Sumeri all’impero romano. Sono premesse storiche lontane, ma spiegano bene le congiure delle quali il popolo kurdo spesso è stato vittima. Credo che la congiura internazionale che il 15 febbraio 1999 terminò col mio rapimento e deportazione in Turchia, sia uno degli eventi più importanti nella tradizione di intrighi delle potenze dominanti
La mia odissea attraverso l’Europa iniziò il 9 ottobre 1998 con la partenza dalla Siria. Mi condusse ad Atene, in Russia ed in Italia. Da lì fui costretto a tornare in Russia e poi nuovamente in Grecia. Il tutto terminò col mio rapimento dal Kenya. Parlo di una congiura internazionale, poiché l’intero processo al quale prese parte una coalizione di potenze di quattro continenti, oltre ad intrighi politici ed interessi economici, conteneva anche un complesso mix di tradimento, violenza e inganno.
Nonostante siano passati 11 anni, credo che questa congiura internazionale rivolta, attraverso la mia persona, contro il popolo kurdo possa suscitare interesse ancora oggi. Comprenderne le cause e le conseguenze può contribuire a far luce sulla situazione politica attuale. Non ci sono dubbi sull’obiettivo primario degli attori principali, gli Usa, vale a dire l’eliminazione del nostro movimento di liberazione. Gli Stati Uniti, con il loro progetto di Grande Medio Oriente, volevano accendere la fiamma del nazionalismo e creare nuovi piccoli stati nazionali per mantenere il controllo del Medio Oriente nei decenni a venire. Un tale progetto non lascia naturalmente alcuno spazio ai movimenti di liberazione. Esiste quindi un collegamento diretto tra il loro progetto di un Grande Medio Oriente e la mia estradizione in Turchia. Gli avvenimenti che si sono succeduti dal 2003 confermano la mia affermazione. Il fatto che noi rappresentiamo una terza, vera alternativa, rispetto ad un equilibrio fondato esclusivamente sulla scelta tra potenze dominanti internazionali e forze reazionarie regionali, ci ha resi bersaglio di attacchi ideologici e politici.
Oltre a questo fine principale, la congiura internazionale perseguiva altri due obiettivi. Da un lato, con la mia morte o la mia reazione all’estradizione, ci si aspettava un’etnicizzazione del conflitto, vale a dire una guerra tra turchi e kurdi. Quello a cui oggi assistiamo in Iraq era stato allora pianificato per la Turchia. L’indebolimento della Turchia a tutti i livelli – sia politico che economico – l’avrebbe completamente legata agli Usa. Il mio comportamento accorto ed il mio intervento per una soluzione pacifica sventarono invece questo piano. Si evitò «l’irachizzazione» della Turchia. Ho lottato con tutte le mie forze per una soluzione pacifica. L’ho fatto di mia spontanea volontà e nella convinzione che fosse nell’interesse dei popoli. Ho inoltre sempre mantenuto un comportamento indipendente e pacifico. È proprio per questo motivo che siamo stati la loro spina nel fianco. Il movimento di liberazione kurdo aveva sempre inteso la propria battaglia, in corso ormai da vent’anni, come difesa del sentimento di fratellanza tra Turchi, Kurdi e tutti i popoli del Medio Oriente. Ha sempre avuto come fine un’unione democratica. Abbiamo sempre fatto affidamento sulle nostre forze e sulla nostra libera volontà. Abbiamo sempre fatto tutto il possibile per preservare la nostra sovranità. Per questo motivo, nonostante la situazione estremamente critica, continuai con la nostra politica perseguita a partire dal 1993 e volta ad una soluzione democratica e pacifica. Ciò in accordo con la nostra linea e come risposta alla congiura. Se la congiura quindi non ha conseguito a pieno il suo scopo, lo si deve in buona parte alla nostra strategia per la pace e per una soluzione democratica.
Dall’altro lato questa congiura politica ebbe anche una dimensione economica. Fin dall’inizio ho sempre sottolineato l’importanza del progetto del gasdotto chiamato Blue Stream, sul quale bisognerebbe fare chiarezza e che fa parte di questa rete di intrecci economici. Blue Stream è un grande gasdotto che trasporta il gas russo in Turchia passando sotto il Mar Nero. Di recente attraverso i miei avvocati sono venuto a conoscenza di un articolo apparso su un giornale turco, nel quale uno dei funzionari allora in servizio afferma che questo progetto, inizialmente bloccato a causa delle condizioni svantaggiose per la Turchia, dopo la mia espulsione dalla Russia il 12 novembre 1998 venne improvvisamente ripristinato su richiesta del governo turco. Ciò avrebbe cambiato il destino del progetto. Il funzionario continua dicendo che dopo la mia partenza dall’Italia il gruppo italiano Eni entrò a far parte del progetto. Questo esempio da solo basta a mostrare come, in collegamento con la mia persona, si stringono accordi economici alle spalle del popolo kurdo. Queste losche relazioni vanno ben più in profondità di quanto ad oggi non si sia potuto scoprire. Gli stati europei affermano ripetutamente di rappresentare la democrazia ed i diritti umani. Tuttavia mi chiusero tutte le porte e non fecero alcun vero tentativo di giocare un ruolo costruttivo nella soluzione della questione kurda. Al contrario si inchinarono ancor di più al volere degli USA e della Nato e, accettando di divenire il palcoscenico della congiura, si assunsero una parte infelice e drammatica. Ecco il vero volto del sistema europeo.
In questo contesto il governo greco giocò un ruolo particolare. Il fatto che andai in Grecia a seguito di un invito da parte di alcuni amici e che fui rapito e portato in Kenya, in violazione del diritto nazionale ed internazionale, mostra come a questo paese venne affidato il ruolo più sporco. Qui si rivelarono nel modo più palese le menzogne, il tradimento e l’ipocrisia che sono alla base del concetto di congiura. L’Italia invece, se paragonata agli altri paesi, si comportò in maniera leggermente migliore. Tuttavia anche lì venni isolato e fecero di tutto per liberarsi di me. Credo che durante il mio soggiorno a Roma abbia avuto un ruolo decisivo un’unità della Gladio, contro la quale il governo italiano era impotente. Il governo italiano non ebbe la fiducia in se stesso e le forze necessarie per prendere una decisione autonoma. Devo comunque ricordare che, a differenza del governo greco, tutto ciò che accadde dopo il mio arrivo fu trattato nell’ambito del diritto.
Ancora una volta vorrei ribadire che farò di tutto per opporre a questi intrighi la pace ed una soluzione democratica. Il fatto che la Turchia come in passato non abbia alcuna reazione ai nostri tentativi di pace, ma persegua una strategia volta all’eliminazione del movimento di liberazione, può essere interpretato come la continuazione della congiura internazionale. A tale riguardo la strategia della pace e della democrazia rappresenta un’opzione importante non solo per i kurdi, ma per tutti i popoli del Medio Oriente.
I cospiratori di allora, le forze reazionarie nazionali ed internazionali, reggono ancora le fila come in passato. Tuttavia anche le forze che combattono per la democrazia e la libertà continueranno la loro lotta, al pari del popolo kurdo e avanzeranno sulla loro strada decise e risolute. Le dimensioni di questa congiura hanno mostrato quanto sia importante che gli oppressi ed i popoli del mondo contrappongano all’ «offensiva globale» del capitalismo una loro «democrazia globale», e rafforzino ulteriormente questa posizione. Io la penso così, oggi come allora.
Abdullah Ocalan
Traduzione: Simona Lavo

venerdì, febbraio 12, 2010

Notturno blues


Ricordo certe notti interminabili, estive, disteso sul letto illuminato da una striscia di luce proveniente da un lampione stradale. La filodiffusione emanava note della Genesi, forse Firth of Fifth. E io aspettavo.
Aspettavo quelli che non sarebbero mai rientrati.
Aspettavo, ascoltando. Ma sapevo già che nessuno sarebbe mai rientrato veramente.
Mia madre, di là, forse dormiva, forse pregava. Anche lei sapeva.
La camera al buio tratteneva la musica, che fluttuava, tratteneva il respiro e lacerava le ferite.
Ah, dolorosa adolescenza mai trascorsa, mai vissuta. Blues della memoria. Fiumi di fumo e foschia tra i rami del silenzioso ricordo. 

giovedì, febbraio 11, 2010

G8 come volano del buon turismo, il sogno spezzato

Lunga la storia del G8 alla Maddalena. Dura da quasi due anni e mezzo. L’inizio ha una data: il 1º ottobre del 2007, giorno in cui la nave appoggio Emery Land leva gli ormeggi dall’isolotto di Santo Stefano per fare ritorno negli Stati Uniti. Comincia lo smantellamento della base della Us Navy alla Maddalena, concessa alla Difesa americana nel 1972, ancora in piena guerra fredda, presidente del consiglio Giulio Andreotti. La bandiera a stelle e strisce sarà ammainata definitivamente solo il 28 febbraio del 2008. Ma è con la partenza della Emery Land che s’apre un tempo nuovo per l’arcipelago dove la flotta dell’ammiraglio Nelson si stabilì per un anno a preparare la battaglia di Trafalgar. Via finalmente i sommergibili a propulsione nucleare, il problema è quello della riconversione da un’economia (povera) di guerra (fredda) a un futuro tutto da inventare. A indicare la via è Renato Soru, allora governatore. La strada maestra è quella del turismo, l’unico comparto – insieme a quello millenario dell’allevamento delle pecore – a garantire ancora lavoro, mentre intorno, chiuse da tempo le miniere di Carbonia, l’industria chimica crolla sia a Ottana sia a Porto Torres e cominciano ad avvertirsi i primi scricchiolii nel polo dell’alluminio del Sulcis, oggi a rischio di smantellamento.
Soru vuol fare della Maddalena un paradiso delle vacanze. Senza devastare le coste, però. Fedele alla filosofia del «suo» piano paesaggistico regionale, che blocca il pluridecennale assalto di palazzinari e speculatori al paesaggio dell’isola intera, Soru coinvolge l’amministrazione comunale della Maddalena in un progetto di recupero delle cubature già esistenti, per restaurarle e per creare posti letto senza aggiungere all’esistente neppure un metro cubo in più. Favorito, questo progetto, dal fatto che l’arcipelago è pieno di edifici della Marina militare italiana dismessi e di altri che possono essere liberati e ceduti alla regione Sardegna o al comune per essere rimessi a nuovo, trasformati in alberghi a cinque stelle. Per far decollare la cosa, un piano di sviluppo turistico ecocompatibile apprezzato e sostenuto da ambientalisti e architetti in Italia e dappertutto, Soru pensa di usare la leva del G8. Che cosa c’è di meglio, infatti, d’una vetrina internazionale come il summit per far conoscere al mondo intero le meraviglie di uno dei luoghi più belli del pianeta? Soru ci crede. Ci crede anche il sindaco della Maddalena, Angelo Comiti e comincia un’avventura che doveva finire nel sogno realizzato di un modello virtuoso di coesistenza tra turismo e ambiente e che invece s’è trasformata in un incubo.
Due le spiegazioni del disastro. Una è la gestione degli appalti, che è l’aspetto sul quale dopo la procura di Firenze ha indagato quella di Roma, con gli esiti clamorosi di ieri. L’altro è quello politico. Perché bisogna anche dire che il progetto di Soru ha trovato ostacoli enormi. Intanto all’interno della sua stessa maggioranza, dove la nostalgia per le lottizzazioni urbanistiche sulle coste era, in alcuni settori, molto forte. Non bisogna dimenticare che Soru s’è dimesso – per giocare la carta delle elezioni anticipate – quando in consiglio regionale uno schieramento trasversale ha tentato di snaturare il piano paesaggistico regionale. Poi, nel febbraio del 2009, il governatore ha perso le regionali, tutte giocate contro Berlusconi in persona, che veniva in Sardegna ogni fine settimana per fare comizi in cui diceva che per rilanciare l’economia bisognava far ripartire l’edilizia. Insediato Ugo Cappellaci alla guida della regione, pochi mesi dopo il presidente del consiglio (ad aprile) annunciava che il G8 alla Maddalena non si sarebbe più fatto: tutto si spostava all’Aquila. Per il progetto di Soru – di cui il G8 era solamente un aspetto, diciamo di marketing – era un colpo mortale.
Nella decisione di fare il summit nell’Abruzzo del post terremoto pesano diverse motivazioni. Ma tra di esse certamente non secondaria è quella di fare piazza pulita di un esempio che poteva essere un precedente pericolo per i predoni dell’industria del mattone. Prova ne sia che le promesse del governo di realizzarlo comunque, quel progetto, anche se il G8 non c’era più, sono state tutte disattese. Le strutture costose, ma anche utili e belle, realizzate per il vertice sono state lasciate andare in rovina. E ci sono volute le denunce dei media perché Bertolaso, la scorsa settimana, venisse in Sardegna a constatare lo sfascio e a promettere, per l’ennesima volta, che i lavori sarebbero subito ripartiti. Ora che ai cancelli dei cantieri sono stati apposti i sigilli dalla magistratura, è chiaro che alla Maddalena s’è giocata una partita davvero poco trasparente, probabilmente sul piano della gestione degli appalti, ma di certo anche sul terreno strettamente politico.

Costantino Cossu

il manifesto

dei patti lateranensi 2010

mercoledì, febbraio 10, 2010

Piano per il lavoro. E' in arrivo il buonsenso?

Terra, 19 marzo 2005 (ex ed 221)



C'è una frase che Bertinotti e Prodi - la strana coppia - amano ripetere, a proposito di programma: il modo di costruirlo è programma stesso.

Sottoscrivo in pieno.

La coalizione che ha vinto le ultime elezioni regionali - ma direi soprattutto Progetto Sardegna - aveva già messo in pratica e inaugurato questo metodo. Le numerose assemblee, gli incontri molteplici con Renato Soru, le alleanze con le realtà civiche e "movimentesche" dei territori, la costruzione dal basso di obiettivi e priorità; tutto ciò è stato il valore aggiunto, la novità vincente della e nella definizione del programma. Sull'onda della protesta mondiale contro il liberismo, di quella nazionale contro il governo ad personam di Berlusconi e di quella regionale contro il giovane Pili, Progetto Sardegna aveva intercettato e capitalizzato - con il suo metodo democratico - le fonti del malcontento. Conquistato il governo regionale, Soru ha iniziato a realizzare la nostra idea di rinnovamento.

Ma la bussola del metodo del coinvolgimento, in qualche caso, sembrava segnare la direzione opposta. Ad esempio sulla legge chiamata "Piano straordinario per il lavoro", quando, pur registrando la contrarietà di tutte le forze sociali, di quasi tutti i comuni e di molti componenti della maggioranza consiliare e pur nell'ottica - condivisibile, ma a certe condizioni - del risanamento dei conti, Soru aveva deciso di tagliarne i fondi. Prescindendo dal fatto che la sforbiciata non era parte del programma, resta il fatto che ancor più adesso che si governa, il metodo della discussione e della socializzazione delle scelte deve proseguire, cercando di raggiungere un nuovo equilibrio tra la giusta esigenza di "decidere" senza veti di sorta e l'altrettanto indispensabile rispetto per le forze in campo.

Credo si tratti della stessa questione, sollevata da più parti, del riequilibrio dei poteri tra presidente della regione e Consiglio. Ma di questo, non dico.

A volte bisogna arrendersi alle ragioni degli altri. Soprattutto quando gli altri sono tutti. Il che non vuol dire che ciò che pensano tutti sia anche "il giusto", ma che ancora di meno lo può essere quello che pensano i pochi. Né vuol dire che bisogna rinunciare alle proprie convinzioni, ma che è necessario rendersi conto che ciò che governiamo non ci appartiene.

E Soru, questo, lo sa bene. E' il principio etico che lo guida.

Infatti, quasi sicuramente la legge 37 verrà rifinanziata con 90 milioni di euri di fondi regionali e con 110 milioni di fondi POR. Ben fatto. Ero sicuro che in questa vicenda la saggezza del nostro presidente, alla fine, sarebbe riemersa. Solo gli eletti ritornano sui propri passi a verificare e a riaggiustare ciò che dopo il loro passaggio rischiava di danneggiarsi. Il lavoro, i lavoratori e i disoccupati, però, necessitano anche di altro. Questo rifinanziamento è solo l'inizio.

Leonardo
cma



Alessandra Mussolini chiude il cerchio

Terra, 18 marzo 2005 (ex ed 220)



La storia dei Mussolini era iniziata a sinistra, nel vecchio Partito socialista, e si chiude oggi, con Alessandra, in quel luogo comune dove convivono le persone così ricche di spirito e anticonformiste da avere poco a che spartire con la destra.
Non so se sia la nipote del duce ad abbandonare la destra oppure sia quest'ultima, come afferma la Mussolini, ad aver perso per strada i valori tradizionali.
Sta di fatto che, a mio parere, una persona come lei, impegnata sul fronte delle pari opportunità, del diritto delle donne alla "piena e garantita vita politica", della tutela della salute e in difesa dell'aborto, contro la legge sulla fecondazione assistita, ecc. ecc., non può che essere persona di sinistra.
Lo so, lo so: il mio proverbiale manicheismo mi porta a considerare di sinistra tutto ciò che mi sta bene, senza farmi nemmeno sfiorare dal dubbio che
a) ciò che mi sta bene potrebbe essere anche di destra;
b) la destra non è solo dio, patria e famiglia.
Ma che ci posso fare: sono fatta così.
Ammetterete comunque che la rottura tra Alessandra Mussolini e Alleanza Nazionale esiste ed è insanabile.
E ammetterete pure che a furia di spostarsi sempre più a destra, oltre il semicerchio parlamentare, si arriva a sinistra.
Insomma, al di là delle ubicazioni e delle definizioni (e autodefinizioni), esiste uno spazio in cui si possono scoprire interessi comuni e necessità condivisibili, una sorta di limbo delle etichette e di paradiso delle intelligenze.
Là, si possono anche iniziare, tutti insieme, battaglie di civiltà.
Non mi passa per la testa, ovviamente, il pensiero che non esistano interessi reali differenti tra destra e sinistra. Anzi sono convinta che le classi sociali cui storicamente si riferiscono le sinistre non siano sparite nel nulla e che conservino in sè e per sè molte istanze inconciliabili con gli interessi della destra.
Sono altresì convinta che la forza del pensiero progressista e libertario possa convincere e coinvolgere (più o meno coscientemente) le persone intelligenti come Alessandra Mussolini. Il tempo aiuta questo processo.
Chissà che in un futuro non troppo lontano non possiamo vedere, nella stessa formazione, Veltroni e Mussolini...
Sarebbe una formazione di sinistra o di destra?

Maria
cma