martedì, novembre 21, 2006

Portualità come motore di sviluppo

PROVINCIA DI CAGLIARI
PROVINCIA DE CASTEDDU
Presidenza



COMUNICATO STAMPA

Portualità come motore di sviluppo
dell’economia del Meridione



Nasce nel mediterraneo il primo Sistema integrato della portualità e l’artefice è la Provincia di Cagliari. Con il coordinamento del presidente nazionale dell’Unione Province Italiane (UPI), Fabio Melilli, le amministrazioni provinciali di Taranto e Reggio Calabria hanno accolto favorevolmente la proposta di creare un Sistema integrato della portualità avanzata dall’amministrazione provinciale guidata da Graziano Milia. L’incontro, tenutosi a Roma presso la sede dell’UPI, ha evidenziato il comune interesse delle tre amministrazioni provinciali per la promozione, l’integrazione e lo sviluppo comune degli Hub containers di Cagliari, Taranto e Gioia Tauro. L’obiettivo è creare una piattaforma mediterranea integrata di interesse comunitario, che abbia le potenzialità per candidarsi ad intercettare la grande parte dei traffici commerciali marittimi del Mediterraneo (24 porti), quelli da e per l’oriente (Cina, Giappone, Corea, Costa del Pacifico degli USA), ma anche verso l’economie emergenti dell’Africa.

L’accordo prevede lo studio e la realizzazione di un progetto operativo legato alla portualità e a tutte le relative attività indotte e dei servizi (logistica, cantieristica, catering, manutenzione, stoccaggio, etc), verso un sistema integrato che consenta di connettere le diverse strutture e soggetti che operano nel transhipment, in modo da ottimizzare anche le soluzioni di continuità tra la rete stradale e ferroviaria e l’offerta di trasporto via mare, assai più economica (il rapporto di costo strada/mare è infatti di 4 ad 1), meno inquinante e produttiva.

Questo progetto dovrà vedere la luce entro sei mesi, per essere poi sottoposto al Governo nazionale e all’Unione europea. Tra gli altri obiettivi che si ripropone di raggiungere l’accordo c’è anche quello della condivisione delle competenze, conoscenze e risorse umane tra i diversi soggetti che operano nei tre Hub terminal di Cagliari, Taranto e Gioia Tauro, promuovendo e sviluppando così le potenzialità economiche locali e integrando le stesse con le politiche di sviluppo del meridione prefigurate dal Governo nazionale.

Un accordo di cui sicuramente si parlerà a Cagliari (Hotel Mediterraneo) il prossimo 23 novembre, in un convegno nazionale organizzato dai Democratici di sinistra, dal titolo “L'Italia porta d'Oriente: la portualità nell'era della globalizzazione". I lavori saranno aperti alle 9.30 dal presidente della Provincia di Cagliari, Graziano Milia. Sono previsti interventi di Antonello Cabras, Giulio Calvisi, Michele Meta (Presidente commissione Trasporti della Camera), Enzo Amendola, segretario nazionale Ds, responsabile per il Mezzogiorno), Tang Heng (Ambasciata cinese in Italia), Cecilia Battistello (presidente Contship), Giuliano Gallanti (presidente Espo), Angelo Capodicasa (viceministro delle Infrastrutture), Cesare De Piccoli (viceministro dei Trasporti), Francesco Nerli (presidente di Assoporti) Fabrizio Solari (segretario nazionale della Filt-Cgil) e Roberto Rupoli (presidente Ancip). Le conclusioni del convegno saranno affidate al segretario nazionale dei Ds, Piero Fassino.



Cagliari, 20 novembre 2006


Ufficio Stampa

domenica, novembre 12, 2006

I sogni interrotti di «Sa Pibinca»

Un carinissimo articolo su Dario Silva, pubblicato su il manifesto dell'11/11/2006


I sogni interrotti di «Sa Pibinca»


Un incidente d'auto ha chiuso la carriera dell'ex attaccante del Cagliari Darìo Silva. Dal dialetto sardo alle lezioni del Trap, la rinascita allegra e testarda di un ballerino uruguagio che ha girato il mondo inseguendo il gol

Malcom Pagani

Non che una servisse più dell'altra. Erano entrambe necessarie. Darìo Silva faceva correre le gambe più veloci del pensiero. Partiva da solo, non sempre arrivava. Dall'alto di una tribuna o dal basso di una curva, era difficile non accorgersi di lui. Gol meravigliosi ed orrori sotto porta, capelli afro color platino e una totale interazione col pubblico. Il sorriso pieno di chi ha realizzato un sogno: «Mio padre faceva il giardiniere del campo da calcio della città in cui sono nato». A Trenta y Tres il tempo libero bisognava inventarselo. «Papà tagliava l'erba e io ne approfittavo per mettere in scena uno spettacolo. Non c'erano avversari, mi portavo un pallone e calciavo per ore. Per me giocare non è mai stato un lavoro. Soltanto una bellissima avventura, come la vita stessa. Non ho mai pensato che avrei dovuto guadagnare soldi per trovare il mio posto nel mondo e guardavo allo sport come puro divertimento. Anche dopo una sconfitta la rabbia durava lo spazio di un secondo. Possedevo un'allegria diversa dai miei compagni, gliele leggevo in faccia le preoccupazioni. Non le ho mai capite».
Darìo adesso è fermo. La luce si è spenta quando la sua Jeep ha abbattuto un palo dell'energia elettrica sul lungomare di Montevideo. Era l'alba del 24 settembre. A Elbio Pappa e Dardo Pereira, i due calciatori che erano con lui, è toccata qualche escoriazione, a Silva l'amputazione della gamba destra. Troppo profonde le ferite e alto il rischio di cancrena, per ipotizzare una soluzione diversa. «Sto abbastanza bene, se si può essere così ottimisti da dire una cosa del genere, dopo tutto quello che mi è successo. Almeno, tornare a casa mi ha tranquillizzato. Mi hanno curato benissimo ma desideravo lasciare l'ospedale a tutti i costi per tornare dalla mia famiglia. Ora posso continuare le cure da qui». L'impatto con la realtà è stato come essere colpito una seconda volta. «Quando mi sono svegliato non ho capito subito dove fossi capitato. Ho chiesto cos'era successo e poi, abbassando lo sguardo, ho visto che mi mancava una gamba. Mi sono arrabbiato. Ho pianto molto, in verità. C'era mia sorella che tentava di spiegarmi l'accaduto ma non volevo ascoltare nessuno. Poi sono spuntati i dottori. Hanno continuato a raccontare e allora ho compreso che avevo sfiorato la morte da vicino. Ho pianto di nuovo, ero commosso di essere ancora vivo. Comprendere che l'unica cosa che contava era esserci, parlare, pensare come prima, mi ha consolato». Ha reagito Darìo, con ironia. Sollevando l'animo dei giornalisti intimiditi che lo aspettavano numerosi sulla porta dell'ospedale: «Non mi hanno tagliato la lingua, posso ancora parlare» e quello dei tifosi che si aspettavano di vederlo indossare la maglia del Penarol, col quale Silva, di ritorno dal Portsmouth, aveva intavolato un'avviatissima trattativa. «Non vi siete persi nulla, ero a fine carriera». Se il cielo non fosse crollato, Darìo sarebbe uscito di strada in un'altra maniera, con una recita d'addio piena di bandiere azzurre, quelle col sole d'Uruguay, che sventolano convinte quando a salutare è un attore così generoso. «Pensa che la sera dell'incidente, non volevo neanche uscire di casa. Speravo che col calcio finisse diversamente. Avrei voluto lasciare un sorriso, dire: sono stanco, non voglio giocare più, ho fatto tutto ciò che dovevo fare. E' finita, basta». Silenzio. «E' andata male ma non fa niente. Gli avvenimenti non puoi prevederli, si presentano da soli, senza avvertire». Nei giorni dolorosi d'inizio ottobre l'ha chiamato mezzo mondo. Maradona compreso. Darìo credeva fosse un imitatore, era Diego invece. Uno che sa riconoscere le cadute. «Non ho potuto rispondere a tutti ma lo farò presto. Ricevere tanto affetto per me è stato importante, mi ha dimostrato che avevo lasciato un ricordo significativo come persona. La cosa a cui tengo di più. La vicinanza e il calore della gente è arrivata al momento giusto. Mi ha dato forza e mi ha stupito, non pensavo che mi volessero così bene, soprattutto in Italia».
Una delle mille patrie di Silva, adottato da Cagliari per tre anni. Dal '95 al '98 segnò molti gol e incontrò amicizie sopravvissute al suo girovagare. «Sono anni che non ci metto piede ma con i sardi ho coltivato nel tempo un bellissimo rapporto». Sa Pibinca lo chiamavano, intraducibile soprannome legato alle sue strane movenze. Lui rideva senza prendersela e si faceva stampare magliette col nomignolo in evidenza, dall'eterno magazziniere comunista, Mario Manca, uno che ordinò per mezzo secolo gli scarpini di generazioni inconciliabili, da Riva a Zola. «Sarà impossibile dimenticarsi di Trapattoni, anche tra cent'anni. Mi ha insegnato il calcio italiano trattandomi come un figlio. Quando finiva l'allenamento mi obbligava a stare con lui per un'ora supplementare di palleggi, giri di campo e tiri in porta. Mi faceva fare di tutto. Al secondo mese di trattamento trapattoniano ero stremato. Un giorno, a fine seduta, mi nascondo dietro i miei compagni e vado dritto negli spogliatoi. Ce l'avevo quasi fatta, mi stavo per vestire». Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco. «A un certo punto sento la sua voce: 'Darìo?'. Gli altri erano sotto la doccia. 'Dove vai?'. 'Stavo andando a casa mister'. 'Rimettiti le scarpe, dai'. 'Per favore mister'». 60 giorni così. «Lo faceva per il mio bene. Una persona fantastica». Come l'altro finto burbero incontrato ad Assemini. «Mazzone era sublime. Aveva un'umanità speciale che non si è inquinata col passare degli anni. Nei giorni successivi al mio dramma mi ha cercato spesso, lasciandomi numerosi messaggi in segreteria. Ancora non l'ho richiamato. Lo farò presto, tra un mese e mezzo mi mandano le gambe di legno - trova la forza di sorridere - e allora potrò muovermi e andarlo a trovare». A Cagliari Silva imparò l'italiano e il sardo, àncora ineludibile, al momento di gridare in faccia agli arbitri il disappunto di un momento: «Quando non volevo farmi capire, soprattutto in Spagna e in Inghilterra, ricorrevo al dialetto. Erano parolacce, non frasi dolci. Io utilizzavo l'espediente certo che non mi scoprissero, però sapevo bene cosa gli stavo dicendo». A 34 anni, con le illusioni messe sotto il cuscino e un nuovo mestiere per incanalare le sensazioni, dovrà moderare il linguaggio. «Sono diventato giornalista sportivo». Adesso è lui a giudicare gli altri. «Ho avuto il battesimo lunedì scorso. Mi ha convinto uno dei miei amici più cari, Pato Aguilera. Mi ha rotto le scatole per giorni e giorni: 'Perché non vieni a lavorare con me?'». Darìo ha risposto sì: «Lo faccio volentieri», con lo stesso entusiasmo naif che vent'anni prima lo aveva fatto esordire nella serie A Uruguagia. «Stare lontano dal campo durante la convalescenza, mi sembra difficile quasi quanto mi appariva a 5 anni, quando pur non rientrando nel limite d'età per la mia categoria, mi impuntai facendo fare ai miei dirigenti carte false pur di giocare. Sono sempre sembrato più maturo di quanto non fossi».
Arrivò al Defensor, all'Under 20, e poi aeroplano dopo aeroplano, in Spagna, Inghilterra e Corea, per lo sfortunato mondiale 2002. «Ho visto palloni e culture lontane fra loro. Paesi diversi. L'Italia mi piaceva perché per fare bene, dovevi essere davvero bravo. C'erano pochi spazi, dovevi inventare effetti speciali per farcela. In Inghilterra, dove mi sono trovato comunque a mio agio con le persone, dominava la palla lunga: una tattica poco spettacolare, incentrata sulla forza fisica, che mi penalizzava». E in Spagna? «Bè, in Spagna c'è un culto della fantasia quasi eversivo, senza pari in nessun luogo del mondo». A Barcellona, Malaga e Siviglia, Darìo ha lasciato rimpianti e record, segnando il gol tuttora più veloce della storia della Liga, dopo appena 7 secondi. Arando il verde con la sfera incollata ai piedi. Tra i tanti che avrebbero voluto vedere ancora i suoi passi di danza, c'è suo figlio, Darìo Junior. «All'incidente non penso e non voglio pensare più, c'è una nuova vita e sono chiamato a ricominciare da zero. L'unico cruccio che mi fa veramente soffrire, è che il mio bambino avrebbe voluto partecipare con gli occhi, al mio ritorno in un campo d'Uruguay. Gliel'avevo promesso, non posso accontentarlo purtroppo. Così lo tengo buono con tutti i vhs che ho gelosamente conservato. Metto la cassetta e seguo la sua gioia». Una teoria di gol senza commento, con i cori dedicati a suo padre. «I miei figli hanno nove e tre anni, non mi hanno chiesto nulla e niente gli ho spiegato. Forse la bambina, che è più grande, qualcosa ha intuito ma il piccolo ride, inconsapevole. Urla in continuazione: 'Vieni a prendermi?. Io non posso andare». Poi, come all'epoca giusta, Darìo trova tra le marcature sentimentali, la deviazione vincente : «Sorrido anch'io e gli rispondo: 'Guarda che in un paio di mesi non mi scappi più, questo è sicuro'. Quando sarà il momento gli parlerò e vedremo cosa accadrà».
Darìo ci rifletterà attentamente. Al nuovo anno, il ballerino che aspetta su una gamba, non chiede la carità di un'altra rumba. «Mi aspetto un 2007 completamente diverso dagli ultimi dodici mesi. Ho perso mio padre poco tempo fa e poi il destino mi ha riservato questo scherzo tremendo. Ho bisogno di dimenticarlo per sempre, il 2006. A capodanno cenerò a casa mia, senza andare a trovare nessuno. Non ho un motivo serio per brindare. Voglio solamente stare da solo e pensare». Per dire quant'è grande la questione, se a un passo dall'inferno non c'è un dio che ti tenda la mano.

La bassa produttività e la pericolosa cura Wolf

Da il manifesto dell'11/11/2006

l'opinione
La bassa produttività e la pericolosa cura Wolf
Riccardo Bellofiore * e Francesco Garibaldo**

Nel dibattito sulla situazione economica italiana Michele Salvati (Corriere della Sera, 25 settembre) ha formulato un'obiezione, seria, alle posizioni della sinistra radicale, cui si deve dare risposta. Né la finanza pubblica né il Patto di stabilità sono il vero problema, lo sono la competitività che si deteriora e la produttività decrescente. La contrazione fiscale non ci è perciò imposta dall'esterno. Va assunta di buon grado per imporre, non il risanamento finanziario in sé e per sé, ma la bonifica della struttura economica reale del paese e uno snellimento del settore pubblico in nome dell'efficienza. Da questo punto di vista, limitarsi a richiedere una Finanziaria meno restrittiva e lasciare nel vago in cosa consisterebbero una diversa politica industriale e una diversa politica di sviluppo renderebbe poco credibile la sinistra radicale. Un mese dopo Martin Wolf sul Financial Times (25 ottobre) formula una diagnosi complementare, in larga misura condivisibile. Non è il costo del lavoro il problema, ma appunto la bassa produttività. La più bassa inflazione consente alla Germania una deflazione competitiva che perpetua il modello neomercantilista che ci vede perdenti. In termini reali le esportazioni italiane di beni e servizi ristagnano dal 2000, e il disavanzo con l'estero si incancrenisce. La bassa capacità di esportazione si accompagna a un livello ridotto di partecipazione al mercato del lavoro, come a un profilo di specializzazione internazionale dell'Italia medio-basso in termini di tecnologia, vulnerabile alla concorrenza dei paesi asiatici. Wolf segnala pure da tempo il rischio a medio termine di un aumento dei tassi di interesse a lunga per le possibili tensioni future, soprattutto tra Usa e Cina, sul finanziamento del doppio disavanzo americano. I tassi europei, e con loro lo spread tra quelli italiani e altri paesi europei, salirebbero: qualcosa che impone cautela sui conti pubblici.
La cura di Wolf è singolare ma intelligente, al di là delle apparenze. Non solo tagli di spesa, ma spingere a lavorare di più gli italiani ovunque, aumentando così il Pil; licenziamenti e innovazioni di prodotto per alzare la produttività nei settori per l'esportazione. Wolf non trascura il problema della domanda effettiva. La risposta è omogenea al modello anglosassone cui si sta adeguando, a suo modo, l'Europa continentale: spingere le famiglie a indebitarsi in modo comparabile con i paesi europei e il resto del mondo - dal 1995 a oggi le famiglie italiane hanno già quasi raddoppiato il loro indebitamento. La logica è trasparente. Mantenere il lavoratore «spaventato», comprimendo il salario e frammentando il lavoro. Tramite il continuo allarmismo sulle pensioni (il risparmiatore «terrorizzato») risucchiare nei fondi pensione il Tfr, e costringere a un maggiore e più lungo tempo di lavoro sociale. Sostenere infine la realizzazione monetaria del profitto dal lato del consumatore «indebitato», che il lavoro deve accettarlo così com'è. Sono argomenti seri e processi pericolosi, del tutto in linea con la via «alta» alla produttività del «nuovo» capitalismo e la sua politica monetaria di complemento, ammorbiditi magari con sussidi al reddito. Vorremmo suggerire un inizio di risposta che non si fermi al pur necessario contro-argomento macroeconomico, ma consideri anche le dinamiche strutturali, e dia qualche esempio di politica industriale come parte di una risposta alternativa di politica economica.
Siamo in presenza di una inaudita centralizzazione del capitale, mediata da una finanziarizzazione esasperata. Non vi si accompagna una crescente concentrazione in unità produttive più grandi di masse di lavoratori omogenei: semmai una riduzione dell'unità tecnica di produzione e una destrutturazione del lavoro. L'accresciuta concorrenza «globale» innesca ovunque una trasformazione generale. Anche l'Italia vive una situazione di crisi, ristrutturazione e riposizionamento dell'industria italiana, con perdenti e vincenti: ma anche i vincenti sono in posizione subordinata nella filiera produttiva integrata. L'azienda «focale» della filiera concentra l'essenziale del know-how e del controllo strategico del processo, e scarica gli oneri delle restanti parti del processo produttivo su altre aziende. Il mercato del lavoro si segmenta di conseguenza quanto a tutele, salari, formazione, e così via. A un certo punto scatta una soluzione di continuità tra insider e outsider, in una generale incertezza che colpisce tutti. Per questo anche, in Europa, il contratto nazionale è sotto attacco. Processi analoghi investono tutte le attività economiche e il settore pubblico.
Se la precarizzazione del lavoro non è medicina universale, anzi le imprese più significative vi fanno modesto ricorso, è però componente importante di tutti i cicli produttivi. Dal punto di vista macrosociale, avanzamento tecnologico e precarizzazione del lavoro (nativo e migrante) sono facce della stessa medaglia.
All'Italia, in particolare, manca un centro strategico e egemonico. In nessun settore, vecchio o nuovo, ha una leadership europea. Non solo per il prevalere di aziende piccole e piccolissime, ma anche per l'assenza di grandi aziende nazionali fortemente internazionalizzate. La grande industria, le concentrazioni bancarie, le strutture chiave della distribuzione commerciale, alcune grandi aziende fornitrici di servizi di pubblica utilità vengono ridimensionate e acquisite da grandi gruppi globali. La parte più avanzata del Nord e del Centro sta diventando risorsa manifatturiera specializzata di servizio per grandi imprese tedesche e francesi. Ovunque gli interessi si sfarinano e le coalizioni sociali si frammentano, con derive regressive.
Una via di uscita passa per una nuova politica industriale, che riequilibri le esportazioni di prodotti tradizionali, e dia vita a un'innovazione profonda della gamma di prodotti. Ma, contro Wolf e Salvati, ciò richiede: 1. un grande impegno finanziario di chi solo lo può garantire come stabile e credibile, lo Stato; 2. un impulso massiccio, deciso e concentrato nel tempo, come richiede ogni intervento che voglia cambiare una traiettoria iscritta nel passato; 3. l'accortezza di sfruttare ora quella finestra di stabilità dei tassi di interesse che non è garantita a medio termine, per l'incerto quadro globale; 4. di individuare le grandi domande inevase della società italiana e europea, qualcosa che solo la politica e la società possono individuare con un'ottica di lungo termine; 5. di definire risposte adeguate che il mercato da solo non è in grado di vedere, per la sua costitutiva miopia; 6. di partire dai punti dove massima e virtuosa può essere l'interconnessione tra questioni economiche, ecologiche, sociali.
Ci limiteremo a un cenno solo sulla questione emblematica della mobilità sostenibile: dai nuovi motori, alla gestione via Ict del traffico nei grandi centri metropolitani, sino alla costruzione di nuovi mezzi di mobilità urbana. Riorientare una parte della capacità produttiva esistente e non utilizzata verso la risoluzione di questo problema è una politica industriale che richiede forte integrazione tra politiche pubbliche nazionali e a scala europea, come anche l'iniziativa privata delle imprese. Ma ragionamenti analoghi si possono sviluppare per l'energia, per l'acqua, per l'istruzione, etc.: cioè per una serie di beni/servizi di natura pubblica o semipubblica che possono diventare il quadro di riferimento di una nuova classe di prodotti/servizi. In questa logica, il lavoro non può costitutivamente essere precario e mal pagato.
Il nostro è un suggerimento, ribadiamo, iniziale, va certamente affinato. E' però, ne siamo convinti, solo prendendo questa strada, e mettendo in campo una nuova capacità di conflitto sociale autonomo, che la sinistra radicale potrà evitare di limitarsi a mettere le note a fondo pagina di politiche social-liberiste.

* ordinario facoltà di Economia
Università degli studi di Bergamo
Riccardo Bellofiore * e Francesco Garibaldo** ** presidente della Fondazione
Istituto per il lavoro, Bologna

Pubblica incoscienza

da il manifesto dell'11/11/2006
di Marcello Cini


Pubblica incoscienza


«Nella vecchia economia la gente comprava e vendeva risorse congelate, cioè un mucchio di materiale tenuto insieme da un pochino di sapere. Nella nuova economia, compriamo e vendiamo sapere congelato, cioè un sacco di contenuto intellettuale in un involucro fisico». Così Brian Arthur, uno dei fondatori del celebre Istituto di ricerca di Santa Fé sulla complessità che caratterizza la svolta dell'economia dal XX al XXI secolo. E l'editor della rivista economica americana Fortune, Thomas Stewart spiega: «In questa nuova era, la ricchezza è il prodotto del sapere. Sapere e informazione - e non soltanto sapere scientifico, ma le notizie, i consigli, l'intrattenimento, i servizi - sono diventati le principali materie prime dell'economia e i suoi prodotti più importanti. Il sapere è quel che compriamo e vendiamo».
Chi mi conosce sa che non mi piace che la conoscenza in generale e la scienza in particolare siano diventate merci che si comprano e si vendono, e che la loro produzione sia sempre più subordinata al vincolo della produzione del maggiore e più immediato profitto possibile del capitale investito. Penso che la conoscenza e la scienza - in quanto beni che, al contrario degli oggetti materiali, non si «consumano» ma si moltiplicano tanto più quanto maggiore è il numero di coloro che possono fruirne - dovrebbero ritornare a essere beni comuni disponibili a tutti.
Ma anche se questo obiettivo può sembrare utopistico - ma forse non lo è pensando alle catastrofi che si annunciano se il mercato continua a essere l'unico riferimento - la necessità di una forte ricerca pubblica, che persegua finalità collettive dovrebbe essere un'assoluta priorità per un governo che pensa al futuro dei suoi cittadini.
Dovrebbe essere ovvio che se la conoscenza e la scienza non vengono prodotte, o se bisogna comprare a caro prezzo sul mercato quelle prodotte dalle multinazionali, il nostro paese non entra nel XXI secolo, ma retrocede al XX se non al XIX. Non è una battuta. Un piccolo esempio storico ci deve far pensare. Basta ricordare che la Cina, dove nel Medioevo erano state inventate la ghisa, la bussola, la polvere da sparo, la carta, la stampa e tante altre cose nel giro di un decennio perse per cinquecento anni la supremazia tecnologica che aveva accumulato. «Perché le sue formidabili navi - si domanda Jared Diamond nel libro Armi, acciaio e malattie - non doppiarono il Capo di Buona Speranza, prima che Vasco de Gama lo doppiasse in senso inverso? Perché non attraversarono il Pacifico arrivando in America prima di Colombo? Cosa fece perdere alla Cina la supremazia tecnologica?». La risposta è banale e dimostra quanto possano essere catastrofiche le conseguenze di perturbazioni locali imprevedibili e apparentemente irrilevanti. Fu semplicemente la vittoria nella lotta per il potere della fazione avversa a quella responsabile della marina a bloccare le spedizioni marittime, smantellare la flotta e proibire la navigazione transoceanica. Una valanga che travolse tutto.
Tagliare 300 milioni su un totale di 1.630 - questo sembra essere l'ammontare della riduzione del finanziamento pubblico per la ricerca scientifica e tecnologica prevista dalla finanziaria - non è un sacrificio paragonabile a quello che anche altri settori della spesa pubblica devono sopportare per mettere in ordine i conti pubblici. E' soltanto incoscienza.

giovedì, settembre 14, 2006

La libertà di stampa

Iniziativa a sostegno del quotidiano Il Manifesto

Intervengono:
Gabriele Polo direttore del quotidiano Il Manifesto
e i giornalisti
Giorgio Melis e Ottavio Olita
Coordina Marco Ligas

29 settembre 2006 alle ore 17,00
Sala congressi Banco di Sardegna
Cagliari viale Bonaria

martedì, settembre 05, 2006

EMERGENZA TARIFFE ELETTRICHE CICLO CLORO-SODA SYNDIAL DI ASSEMINI

PROVINCIA DI CAGLIARI
PROVINCIA DE CASTEDDU



COMUNICATO STAMPA

EMERGENZA TARIFFE ELETTRICHE CICLO

CLORO-SODA SYNDIAL DI ASSEMINI



MOBILITAZIONE STRAORDINARIA IN DIFESA DELLA

PRODUZIONE INDUSTRIALE E DEI POSTI DI LAVORO




Gli impianti industriali per la produzione cloro-soda della Syndial di Macchiareddu – gli unici in Italia ad utilizzare una tecnologia di eccellenza a basso impatto ambientale – rischiano la chiusura a seguito della procedura di infrazione avviata dall’UE, che ha ravvisato un “aiuto di Stato” nella tariffa agevolata per la “fornitura di energia elettrica alle imprese sarde ad alta intensità energetica”.



“Occorre – ha detto Milia – un immediato intervento ed una collegiale mobilitazione per scongiurare la sospensione di una produzione che riesce ad essere competitiva nel mercato grazie alle tariffe energetiche agevolate introdotte nel 2005. Vorrei infatti ricordare – ha aggiunto Milia – che il prezzo dell'energia elettrica in Sardegna è superiore alla media europea e che siffatti prezzi sono la conseguenza della forte componente del petrolio nel processo di generazione dell'energia elettrica e della mancanza di interconnessioni alle reti energetiche tra la Sardegna e la penisola. Inoltre, i generatori di energia elettrica in Sardegna non possono utilizzare il metano a ciclo combinato per produrre energia a basso costo in quanto l'isola non è collegata ad alcun gasdotto”.



A tale proposito si ricorda che proprio sulla base di queste giustificazioni, con il decreto legge 35/2005, l'Autorità per l'energia fu autorizzata dal Governo nazionale a fissare particolari condizioni tariffarie alle forniture di energia elettrica in Sardegna per le imprese appartenenti ai settori della produzione e lavorazione di alluminio, allumina, piombo, argento e zinco, estendendo tali agevolazioni (fino al dicembre 2010, data entro la quale si prevede l’attivazione del gasdotto algerino-sardo ) ad un nuovo settore (che fino ad allora non beneficiava): il ciclo cloro-soda della Syndial. In tal senso, l'Autorità per l'energia ebbe poi ad individuare quattro beneficiari: Euroallumina, ILA, Portovesme e Syndial di Macchiareddu.



Ora, a seguito di due recenti reclami formalizzati alla Commissione europea da alcune società concorrenti, lo scorso giugno è stato aperto un procedimento di infrazione che mina seriamente la sostenibilità economico-industriale degli impianti Syndial di Macchiareddu, e non solo. Infatti, la Commissione europea ritiene che la riduzione delle tariffe elettriche costituisca un aiuto improprio al funzionamento delle industrie, “che rientra tra le forme di aiuto più discorsive della concorrenza, tanto da procurare un improprio vantaggio economico”. La Commissione, pur riconoscendo che in casi eccezionali gli aiuti al funzionamento delle industrie possono essere concessi (nel caso in cui gli svantaggi strutturali della regione siano troppo elevati) dubita che i prezzi dell'energia elettrica in Sardegna possano considerarsi svantaggiosi per le industrie energivore e comunque, a detta della Commissione, “non sembrano perseguire come obiettivo lo sviluppo regionale”. Per la Commissione europea “la situazione attuale in Sardegna è non solo di sovracapacità, ma anche di eccedenza di generazione di energia elettrica”, tanto da non poter giustificare il ricorso a tariffe agevolate per la considerazione di un prezzo più alto dell’energia rispetto alla media europea.



Per definire le strategie comuni da adottare per la difesa della realtà produttiva della Syndial di Assemini, il presidente della Provincia di Cagliari, Graziano Milia, ha quindi indetto per domani, 6 settembre (Palazzo Regio di Cagliari, ore 12), un’assemblea straordinaria a cui sono stati invitati a prendere parte i sindaci di Cagliari, Assemini, Uta, Capoterra, Sarroch, Villa S.Pietro e Pula, parlamentari sardi e consiglieri regionali, il Casic e le segreterie territoriali e regionali della CGIL, CISL e UIL.





Cagliari 05.09.2006

domenica, agosto 27, 2006

PROGETTO TAPIS ROULANT

RELAZIONE SUGLI EFFETTI AMBIENTALI
Inerente il
PROGETTO DEFINITIVO DI
“REALIZZAZIONE DI UN SISTEMA COORDINATO DI PARCHEGGI DI SCAMBIO E TRASPORTO
MACCANIZZATO NEL CENTRO STORICO

Ente Proponente il progetto
COMUNE DI CAGLIARI

Ente istruttore del procedimento
REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA
Servizio SIVEA

Responsabile del Procedimento
DOTTORESSA ROSANNA CARCANGIU

Scrivente
Antonio Gregorini –Legambiente Cagliari

Toni Corona

Cagliari 22 agosto 2006



Premessa

Lo scrivente Antonio Gregorini, nato a .... il ...., ivi residente in via ...,
il giorno 21 agosto u.s. si è recato presso gli uffici dell’Assessorato
all’Ambiente della Regione Autonoma della Sardegna dove ha preso visione
della Relazione sugli Effetti Ambientali inerente il Progetto Definitivo di
“REALIZZAZIONE DI UN SISTEMA COORDINATO DI PARCHEGGI DI SCAMBIO E TRASPORTO
MACCANIZZATO NEL CENTRO STORICO, ivi depositata dal Comune Di Cagliari, ente
proponente il progetto.
Sulla base di quanto riportato sulla relazione in oggetto produce le
seguenti note affinché chiunque abilitato a esprimere parere sul progetto e
sulla REA ne tenga debito conto e sia agevolato nella formazione di un
parere quanto più obiettivo, frutto di diverse osservazioni.

Presupposti del progetto
I presupposti sono condivisibili e rientranti nei principi generali di
sviluppo sostenibile.
Il progetto è stato redatto perché:
Pag.3 “…l’ambiente, l’attività, il tipo di veicoli, le infrastrutture, la
gestione e l’organizzazione dei servizi; agiscano in modo integrato e
sinergico al miglioramento dell’ambiente urbano…”.
Pag. 17 “…l’azione del camminare sia parte integrante della tradizione
europea;…”
Pag. 18 “…Promuovere il cammino come modo di trasporto alternativo non
poteva prescindere dal considerare come basilare l’accessibilità degli spazi
pubblici urbani aperti focalizzando l’attenzione sulle categorie più deboli
(bambini, anziani, disabili,…) … l’introduzione di sistemi meccanizzati di
trasporto…concepiti per rendere ogni spazio fruibile.”
Pag. 19 “…le analisi economiche di progetto hanno opportunamente individuato
le esigenze di personale e quelle manutentive necessarie per l’ottimale
esercizio dell’opera…”
Non si capisce però come “l’azione del camminare” possa essere ritenuta
coerente con la realizzazione del progetto, dal momento che si prevede
l’inserimento di impianti meccanizzati proprio per evitare il camminare. Ad
un attenta lettura si scoprirà che è lo stesso progetto a stabilire
l’impossibilità per le categorie più deboli e disabili di poter liberamente
usufruire degli impianti di risalita meccanizzata.
Allo scrivente appare incomprensibile come si possa prevedere un complesso
sistema impiantistico di risalita, in salite di non forte pendenza
(dislivello 25 mt e pendenze del 10 – 15 %) per evitare l’azione del
camminare.
Dalle analisi economiche si evince che il ristorante sul Rivellino viene
progettato anche e soprattutto per dare giustificazione economica
all’intervento. Non si dice che negli immediati dintorni esistono già dei
locali analoghi avviati.
Si riporta come quota dei maggiori introiti quelli inerenti la tariffazione
dei parcheggi. Non si menziona però una realtà incontestabile: i parcheggi
in struttura realizzati dall’altra parte di Castello sono deficitari e
spesso semi vuoti; non risulta che gli abitanti di Castello ne abbiano
usufruito come previsto; non si dice che anche gli attuali parcheggi
esistenti nel Cammino Nuovo e in via Santa Margherita sono inutilizzati per
gran parte del giorno e della notte.
La logica economica sottostante il progetto si percepisce chiaramente priva
di buone argomentazioni di base. Il rischio è lo spreco di denaro pubblico
per la realizzazione di opere impattanti e inutili.

Strumenti di tutela locale e norme di pianificazione del territorio.
Il Piano Paesaggistico Regionale rappresenta “sempre un punto di riferimento
per l’analisi degli impatti degli interventi antropici nel contesto
ambientale e paesaggistico e per lo sviluppo sostenibile”, ci si domanda se
un intervento di questa portata non debba essere ricompreso nelle more del
PPR e sottostare quindi ai principi di salvaguardia del Paesaggio Urbano
Storico, dal momento che le mura di Santa Croce rappresentano una delle
icone della Città di Cagliari.
Ammesso e non concesso che il ristorante sia esteticamente ben inserito nel
paesaggio delle mura e delle architetture antiche, non appare comunque
rispettato il principio di preminenza del recupero degli edifici esistenti
rispetto alla affermata ma non dimostrata necessità di realizzarne di nuovi.
Nonostante lo stato di relativo abbandono del quartiere e la grande quantità
di edifici da recuperare si è preferito realizzare nuove cubature sulle mura
con un profilo avulso dal contesto e dalla memoria della Città.
Le aree soggette a trasformazione sono identificate nel Piani di Assetto
Idrogeologico come Hg3 cioè “ zona con frane quiescenti con tempi di
riattivazione pluriennali…”. Lo stesso PAI identifica possibili rischi di “
danni minori agli edifici, alle infrastrutture e al patrimonio ambientale”
per l’area adibita a parcheggio e “ possibili problemi per l’incolumità
delle persone, danni funzionali agli edifici e alle infrastrutture con
conseguente inagibilità degli stessi” per la zona della fossa di S.
Guglielmo.
La REA, giustamente , sottolinea a pag.40 che “potrebbe essere necessaria la
predisposizione di uno studio specifico di Compatibilità Geologica e
Geotecnica”..
La stessa REA evidenzia a pag. 42 che il “Piano di sistemazione degli spazi
verdi circostanti il Castello, cfr. del. 201 del 17/12/97 non prevedeva il
parcheggio, né i tapis roulant e scale mobili ne tanto meno il ristorante
sul Rivellino Piemontese, era pertanto molto più rispettoso del paesaggio.

Descrizione del progetto
Nel capitolo così intitolato, l’Ing. Frongia, redattore della REA, evidenzia
giustamente che la costruzione delle opere sarà accompagnata da lavori di
“risanamento delle antiche mura”. Descrive questi lavori come “cuci e
scuci”, inserimento o sostituzione di conci e la ripresa con malta. Non è
questo pertanto un vero consolidamento delle mura né un miglioramento della
coerenza di queste con l’ammasso roccioso retrostante. Allo scrivente questa
appare come una carenza piuttosto grave.
Negli Aspetti Economici e Gestionali viene evidenziato un deficit di
gestione nonostante la sovrabbondante stima dei ricavi ed escludendo
sopravvenienze negative e guasti straordinari.
L’Esame delle soluzioni alternative giunge frettolosamente alla conclusione
che il progetto è inserito in un quadro strategico di vecchia data e
trascura ipotesi ben più plausibili d’intervento quali, per esempio, quelle
in precedenza prospettate nel Piano di sistemazione del 1997.

Analisi dei possibili effetti ambientali dell’opera
A pag. 111 della REA si afferma:
“ Non si può disconoscere come dal processo di meccanizzazione dei percorsi
auspicato dal progetto, proprio perché inserito in un contesto di alto
valore culturale e storico, possa scaturire, in assenza di un’opportuna
ricerca di equilibrio fra conservazione e trasformazione, il rischio di
un’alterazione dei connotati paesaggistici con deterioramento dei caratteri
di riconoscibilità dei luoghi.”
Evidenzia il relatore che “anche le scale mobili previste tra la Piazzetta
Dettori e la Via Manno e in Via Santa Margherita si identificano per la
dominanza fisica degli impianti rispetto agli spazi disponibili.” Propone
egli stesso delle indicazioni per ridurre gli impatti paesaggistici ma anche
quelli sulla stabilità dei versanti. Chiede che venga prevista la crescita
di rampicanti sulle pensiline metalliche e vetrate di protezione degli
impianti…sic.
Appare più volte rimarcata, dalla stessa REA, l’incongruenza dell’opera con
le preesistenze paesaggistiche.
E’ altresì rimarcata la possibilità che i lavori di scavo per la
realizzazione del parcheggio e per l’inserimento delle scale mobili sulla
fossa di San Guglielmo possano provocare danni agli edifici civili e alle
infrastrutture esistenti e si evidenzia la necessità di “affinare le
conoscenze sullo stato delle condizioni geologiche – idrogeologiche -
geotecniche dell’area”.
Viste le premesse, ci si domanda se il danneggiamento dell’esistente è un
rischio rapportabile all’utilità delle scale mobili?
Per quanto riguarda i 25000 mc di terra provenienti dallo scavo ancora non
si è trovata una destinazione. Anche in questo caso sarebbe d’obbligo
affinare le conoscenze.
Un capitolo è dedicato infine alle strategie per l’acquisizione del
consenso. In esso è dato per scontato che l’introduzione delle innovazioni
va perseguita attraverso una politica di partecipazione e condivisione del
progetto. Allo scrivente non risulta che sul progetto ci sia mai stata una
forte adesione della cittadinanza, anzi risulta che intere parti di esso non
siano comprese e in parte vengano rigettate. Il numero di firme raccolte da
un comitato di quartiere di Castello ne è la dimostrazione. Ne consegue che
la prosecuzione dell’iter di realizzazione, in assenza di modifiche
sostanziali, condivise dagli abitanti e dal resto dei cittadini potrebbe
essere motivo di conflitto.
Tutto ciò premesso, in conclusione, con la presente si chiede alle
istituzioni competenti per il rilascio del parere in questione di:
• Decidere perché l’opera sia sottoposta a Studio di compatibilità
ambientale.
• Decidere perché sia richiesta la rinuncia a realizzare tutto il
sistema di scale mobili e tapis roulant in vista nel Cammino Nuovo,
compresi anche quelli situati nel quartiere Marina.
• Decidere perché sia approfondita e verificata la necessità di
realizzare un ristorante sul Rivellino Piemontese, che ha un’architettura
avulsa dal contesto paesaggistico.
• Decidere che venga effettuata una preliminare verifica della
possibilità di utilizzare, all’uopo, edifici preesistenti da restaurare.
• Decidere perché sia verificata la reale rispondenza del quadro
economico di gestione riportato in progetto.
• Decidere perché sia richiesto un approfondimento delle conoscenze
geologiche – geotecniche - idrogeologiche ad evitare qualsiasi possibilità
di danneggiamento di edifici e infrastrutture pubbliche e private e se del
caso decidere perchè venga richiesta la stipula di una polizza assicurativa
a garanzia della proprietà privata.
• Decidere perché venga verificata la reale condivisione del progetto
da parte dei cittadini residenti e operanti nel circondario, nonché, data
l’importanza culturale del sito, anche dei cittadini cagliaritani nel
complesso e di chiunque abbia interesse.
Firmato
Antonello Gregorini
LEGAMBIENTE CAGLIARI

giovedì, agosto 10, 2006

Miniere. Diamoci una scossa, signor Presidente

Diamoci una scossa! E' tempo di riflessioni e di risposte alle tante domande
che ci poniamo in questo periodo su cosa siano per noi le miniere e su come
vogliamo che sia la nostra vita qui.

La memoria della miniera muore (tra una decina d'anni ci saranno ben pochi
minatori!) e si stanno investendo milioni di euro pubblici per valorizzare
questa memoria, ma, sostanzialmente, per distruggerla ristrutturando edifici
minerari che perdono qualunque connotazione di ciò che erano e non si sa
bene cosa saranno. La vecchia scuola elementare di Monteponi (il nostro
"modesto ma strategico laboratorio/museo"?!) è stata rimessa "a nuovo": non
è più un massiccio edificio scolastico degli anni '40/'50, ha un portone non
più in legno ma una vetrata in una struttura di metallo, una scala enorme
all'esterno per la sicurezza, qualche mosaico in meno. Non è e non sarà mai
ciò che volevamo che fosse: un luogo per noi e per le future generazioni,
per i bambini di viva memoria, di scoperta e di passaggio per entrare nella
buia miniera.
I ruderi minerari stanno crollando e le discariche di sterile ci invadono
con tutto il loro potere distruttivo di veleni accatastati in secoli di
lavoro. Con un atteggiamento un po' romantico, un po' retorico/decadente a
noi piace tanto questa nostra selvaggia natura così rovinata, squarciata,
inquinata, la guardiamo con occhi incantati e ci sembra di vederli là questi
minatori idealizzati, eroi del lavoro, della fatica, della lotta. Ma
dobbiamo superare questa mentalità.
C'è da fare in fretta se si vuole recuperare qualcosa e c'è da pensare ad un
possibile loro utilizzo (in senso turistico?) se si vuole mangiare anche
domani, quando si uscirà dalla misura uno della Comunità Europea, perché gli
stati dell'est sono più poveri di noi e quando le pensioni di silicosi degli
ultimi minatori non ci saranno più.
E allora che si fa. Si fa il bando internazionale di gara per la "cessione,
riqualificazione e trasformazione di ambiti di particolare interesse
paesaggistico del Parco Geominerario della Sardegna (Masua, Monte Agruxau,
Ingurtosu, Pitzinurri e Naracauli)
Le domande sono state quattro: l'immobiliare Lombarda s.p.a., la Pirelli, la
Hines Italia (fondo di investimento immobiliare americano) e la società
temporanea di imprese Sviluppo Sardegna.
Tutto sembra organizzato nel miglior modo: non si sta vendendo al miglior
offerente, rassicura il Presidente Soru, ma a chi presenta il miglior
progetto dal punto di vista paesaggistico-ambientale, dal punto di vista
della qualità architettonica, dell'integrazione col resto del territorio,
che vuol dire capacità di collaborare con gli artigiani, con gli
agricoltori, col sistema integrato dell'ospitalità diffusa. Tutto sarà
sancito da un accordo di programma che sarà firmato dalla Giunta regionale,
dalla Provincia, dai Comuni e dall'Igea.
Qui tutti (quasi) sembrano convinti che sia la nostra grande opportunità.
Poche le voci critiche, la solita Rete di Lilliput (netto dissenso e
fortissima preoccupazione rispetto alla decisione della Regione Sarda di
vendere alcune aree minerarie per realizzarvi "strutture alberghiere
ricettive con annessi centri benessere, strutture sportive e per il golf"),
il Gruppo d'Intervento Giuridico e gli Amici della Terra (che hanno
presentato un'istanza di radicale modifica del bando, esprimendo contrarietà
alla privatizzazione di aree di così grande rilievo storico-culturale ed
ambientale e chiedendo una politica dei "piccoli passi" con il risanamento
di un sito minerario alla volta, la programmazione della sua gestione, la
sua apertura alla fruizione turistica mediante il coinvolgimento di soggetti
imprenditoriali locali) la CISL e la destra che strumentalizza l'argomento
per attaccare la giunta Soru.
Insieme a Teresa Piras e all'Associazione Centro sperimentazione
autosviluppo che ha messo su in questi anni una splendida esperienza di
turismo fatto di accoglienza in famiglia chiamata "Domus amigas" si voleva
creare un momento di approfondimento su queste tematiche.
La storia delle miniere ci dà chiaro il limite della modernità, di un
modello di sviluppo (di un modello di società) che incurante degli uomini e
dell'ambiente, della natura, della terra, prende, prende, prende senza
limiti. Le miniere sono chiuse, ma la mentalità è uguale. E al padrone
francese o belga sostituiremo quello magari arabo o lombardo e invece di
mamma-miniera avremo mamma-turismo. Nuovi padroni assoluti che daranno il
nome delle proprie mogli non più a gallerie o laverie, ma ad alberghi e
campi da golf. E noi sempre lì a "vendere" non più il minerale, ma il mare,
il faraglione, la galleria, il ricordo.
Possibile che non riusciamo a fare a meno di un ricco signore che viene
dall'esterno e di un modello di sviluppo (o di distruzione) che accentra,
monopolizza, ci toglie il controllo, il potere, ci trasforma in pedine che
con molta facilità possono anche non servire più. E' possibile che lo
sviluppo turistico sia necessariamente fatto di alberghi (anche) centri
benessere e campi da golf!! Non si tratta solo di soldi, ma di mentalità,
di cultura, di stile di vita. Possibile che la storia delle miniere non ci
abbia insegnato nulla!!
"Queste terre violate raccontano storie finite, sono musei per eccellenza,
raccontano epoche compiute ma vicine a noi, raccontano soprattutto la
modernità: società internazionali che investono, usano territori, danno
lavoro, esauriscono sottosuoli, seguono le leggi del mercato, abbandonano
siti, lasciano sul lastrico uomini con abitudini secolari, spingono gente a
chiedere che le miniere siano aperte in eterno, siano rivalutate, riusate.
Usare le storie di vita per capire questo mondo è fondamentale, soprattutto
per un antropologo che cerca di ascoltare le voci di coloro che lo hanno
vissuto". (tratto da "Tra miniere e campagne: i paesaggi, visioni del
ricordo" di Pietro Clemente)

"Ne ho conosciuta di gente di miniera, tante cose mi ricordo, ma,
invecchiando, una cosa mi è successa, che le cose brutte, quelle brutte
brutte, me le sono dimenticate, non proprio dimenticate, è come che . E'
come che siano capitate a un'altra, e penso: scedà, tutto quello che ha
passato quella donna! Ma poi me ne rido perché mi ricordo che sono io. Ne
conosco io di storie di miniera . Vecchia sono e ho visto l'erba crescere
sopra i pozzi, i villaggi abbandonati .. Vecchia sono, e mi pare di essere
l'unica
a ricordare quando c'era vita qua, c'era vita nei paesi nostri. Ne ho girato
di posti . Cernitrice, cameriera, cuoca, locandiera sono stata. Perché il
marito mio, dove lo pagavano meglio andava, il lavoro non lo temeva, non
voleva paga di manovale, lui ..
Quando uscivano da miniera, tutti uguali parevano i minatori, soldati
stanchi, tornati da una guerra, con quelle facce sporche, ma, sotto quella
polvere scura, ognuno una storia aveva ." (Tratto da "Scavi, storia di
miniere" di Mariangela Sedda)
Povera gente venuta da ogni parte, dignitosa, battagliera, che riempiva le
gallerie, le piazze e le bettole. La storia delle miniere non è stata
un'epopea,
ma una storia di uomini e di donne dipendenti, subordinati, malati nei
polmoni e nelle ossa. Una generazione che ha visto nella miniera, nel
dopoguerra, il riscatto dalla fame, dalla povertà, dall'ignoranza che ha
voluto che i propri figli studiassero, non parlassero il sardo, si
preparassero a fare altro. Ma altro cosa? Noi non abbiamo la vocazione di
essere gli imprenditori di noi stessi, si dice e le poche iniziative sono
fallite fra scontri e invidie.
Forse nei millenni abbiamo maturato una concezione dell'ambiente, del
territorio profondamente errata che considera la terra estranea a noi
stessi, da forare, svuotare e invadere di discariche, residui tossici,
inquinanti. Abbiamo considerato l'ambiente come estraneo da noi, in una
visione solo utilitaristica e predatoria delle sue risorse. Ma noi stessi
siamo stati considerati da spremere e buttare via. E così ci siamo
deresponsabilizzati.
Ma non ci ha insegnato niente questa esperienza?!
Dobbiamo ricadere in mano di multinazionali!! Non c'è proprio alternativa!
Possibile che insieme ad una intera comunità non si riesca a trovare un
senso, una forza, una dimensione di profondo cambiamento?! Ci deve pur
essere una strada diversa che ci dia dignità e coraggio, che ci metta di
fronte alle nostre responsabilità, ma anche al nostro potere, che ci faccia
sentire minatori, cernitrici, agricoltori, pastori, artigiani, maestri di
nostre idee, di nostri progetti, di nostre iniziative culturali,
imprenditoriali aperti al mondo, alla terra, al cosmo.
Ho continuato imperterrita in questi anni a parlare di miniere con i bambini
e le bambine: interviste, visite guidate, rappresentazioni teatrali,
filmati, murales per conoscere, capire, non dimenticare.
Non per i turisti, ma per noi per il nostro essere e sentirci figli di
un'esperienza
millenaria di minatori. Nelle magliette realizzate per inaugurare il murales
c'era scritto "Nel cuore un nonno minatore e una nonna cernitrice" Ma chi li
sente nel cuore, e fino a quando?!

Possiamo pensare prima di tutto a riscattare la nostra storia. Perché non
puntiamo su una comunità (su uomini e donne che ricordino "che gli uomini
sono della terra e non è invece la terra degli uomini" come scrive
l'antropologo
Pietro Clemente) che sappia maturare e crescere nella consapevolezza della
storia dei propri antenati (le miniere quali sepolcri di famiglia); sappia
essere protagonista di tante e piccole iniziative che insieme facciano
lievitare un grande progetto, una grande prospettiva umana e ambientale che
riesca a costruire risposte ai bisogni primari essenziali di tutti.

Mi sento cittadino del mondo in questa ricerca, mi sento vicina a mio padre
minatore come al contadino eritreo in questa ricerca di essere "padroni",
responsabili di noi stessi, della nostra esistenza, del nostro futuro.

Fare i camerieri negli alberghi di Masua o di Rimini non fa molta
differenza, è solo maggiore la distanza da casa!! La differenza la fa se
l'albergo
di Masua (che magari è stato costruito e viene gestito dalla ditta
Lombarda - meglio certo se è sarda) fa parte di un progetto della mia terra,
integrato con i campi di agricoltura locale biologica, il campeggio di
Fontanamare - Gonnesa, la cooperativa che conduce nei percorsi di miniera
(da Acquaresi a Sa scalitta!!), la scuola di ., la musica, la cultura, il
museo, il belvedere e le tante persone che vivono e lavorano, i tanti
"imprenditori" locali che gestiscono, in un progetto integrato, il tutto.
Non vendiamo o diamo in concessione un pezzo di territorio! Anche con le
migliori regole, vincoli, accordi di programma con gli enti territoriali, è
comunque un modo per delegare, per recedere dalle nostre responsabilità, per
aspettare, con troppe aspettative e prospettive, chi dall'esterno ha i
soldi, ma soprattutto ha il potere di comandare e guidare il nostro futuro.
Stimoliamo il nostro orgoglio, le nostre forze ed energie migliori per
costruirci sentieri di autosviluppo duraturi, sostenibili, "nostri". Non
creiamo grandi aspettative da ciò che non sollecitiamo o creiamo da noi
stessi.
E allora cerchiamo le risorse finanziarie, culturali, creative; facciamo
arrivare i migliori progettisti per darci una mano, ma partecipiamo
attivamente e creiamo questo processo noi, con piccoli passi, guidando e
sostenendo chi può da noi investire e mettersi in gioco. E che il Parco
Geominerario storico ambientale sia capace di guidare questo processo, non
facendosi imprenditore, ma ideatore, coordinatore, motore.

Il nostro territorio è per intero un museo, ma nessuno fa da guida, nessuno
ce lo racconta o lo racconta a chi lo vive come estraneo, muto. Non è una
guida fisica ciò che serve ma una voce che entra dentro di noi e ci svela i
segreti di chi ha vissuto, lavorato, amato, riso, pianto in quelle case, in
quei sentieri, in quelle gallerie.
Nessun altro può raccontare questa storia se no noi, figli di miniera
nonostante tutto (nonostante il distacco, il rifiuto, la cultura
consumistica senza tempo e senza spazio). E possiamo raccontare questa
storia solo se sentiamo "nostra" questa terra e l'amiamo e la valorizziamo,
e la bonifichiamo e la percorriamo con tanti nostri "ospiti", turisti
educati e responsabili a cui offrire il racconto di vita insieme ad un
letto e i nostri cibi e sapori migliori e passeggiate e profumi e
affascinanti paesaggi, filtrati con i nostri occhi e con il nostro cuore.
Nessun altro, anche con tanti soldi, può costruire il nostro domani. " Noi
siamo importanti, siamo grandi, se la smettiamo di pensare in piccolo,
affidando ad altri responsabilità che invece ora ci dobbiamo assumere come
popolo" (Presidente Soru)

"La mia Sardegna è quella degli spazi infiniti, privi di tracce di
antropizzazione, ricca di risorse altrove introvabili, e per questo
preziose: il buio, il silenzio" (Presidente Soru - Corriere della Sera
23/11/2003)
E' una frase bellissima. Io ci aggiungerei:
" La mia Sardegna è anche quella delle tracce di una antropizzazione di
rapina, di sfruttamento, di dipendenza, tracce che sono oggi silenziose e
buie. Che devono restare per raccontare a noi e al mondo storie di uomini e
di donne che hanno lavorato e sofferto"

Marina Muscas

Carissimo presidente,
Sono Teresa Piras, presidente dell'Associazione Centro Sperimentazione
Autosviluppo, che ha promosso, tra l'altro, il progetto di ospitalità in
famiglia "Domus Amigas".
In merito al Bando Internazionale, vorrei esprimere riflessioni e
considerazioni che nascono dalle scelte fatte e portate avanti in questi
anni nei territori ex-minerari del Sulcis Iglesiente.
Alcune sue affermazioni sono perfettamente in sintonia con i nostri progetti
di autosviluppo:
· 08/03 2004 - "La Terra non si vende. E' diverso se a gestire la
nostra Terra, promuoverla, accompagnarla verso il futuro siamo noi con la
nostra testa, con la nostra cultura, con la volontà di continuare a viverci,
a crescere i nostri figli, piuttosto che qualcuno che arriva qui, magari con
l'orizzonte temporale d' un fondo di investimento."
· 23/09/2003 - "Non è dignitoso vendere la propria Terra, non è
dignitoso aspettare sempre che qualcuno ci dica che cosa dobbiamo fare"
· 27/03/2004 - "Noi siamo importanti, siamo grandi.dobbiamo smettere
di credere alle bugie di chi, non sardo, pensa di insegnarci come rilanciare
e sviluppare la nostra isola.Se un domani dovessimo fare un monumento nella
hall dell'Università del Turismo in Sardegna, quel monumento non dovrà
essere quello di un principe venuto da fuori che ha scoperto le nostre
coste, ma dovrà essere Peppineddu Palimodde che ha visto i lecci, ha visto i
sugheri, ha visto i cinghiali, ha visto quello che sapevano fare a casa sua,
che ha capito che l'ambiente è il valore delle cose che sappiamo fare, che
può essere preziosissimo e fonte di sviluppo per un'intera comunità".
Il Bando Internazionale non ci sembra figlio di dichiarazioni così
inequivocabili. La coerenza l'abbiamo ritrovata invece nella Progettazione
Integrata come modello esemplare di democrazia partecipata e scuola di
autosviluppo per i nostri territori.
Occorre tempo per passare dalla millenaria cultura della dipendenza
all'autonomia,
per avviare processi che inducano a contare sulle proprie forze e sulle
risorse locali, che si danno tanto per scontate da non apparire bene
prezioso. Continuare su questa strada, incoraggiando e accompagnando la
nascita dell'imprenditoria locale, è uno dei nodi cruciali del passaggio da
un passato che ha visto noi sardi dipendenti e subordinati ad un futuro in
cui possiamo responsabilmente assumere la gestione di noi stessi e della
nostra Terra (non in un'ottica di chiusura e orgoglio nazionalistico ma in
quella della tutela e condivisione della nostra specificità e ricchezza
culturale).
Occorre cambiare la mentalità di tutti noi superando i miti della modernità
basati sul saccheggio della terra e sulla concentrazione delle risorse nelle
mani di pochi, miti di cui i nostri territori ex-minerari vivono oggi le
drammatiche conseguenze.
Le strade da percorrere sono altre: dal risanamento ambientale alla tutela
dei beni primari (suolo, acqua e aria pura), dal benessere di pochi alla
comunità in cui si possa star bene tutti (intendendo il benessere non in
termini monetari ma di beni primari condivisi).
E' questo il sogno che stiamo cercando di realizzare con il progetto di
autosviluppo: far rivivere i nostri territori, partendo da noi, dal potere e
dalla responsabilità di ciascuno per cercare di costruire comunità il più
possibile autosufficienti e solidali, aperte all'incontro e alla
condivisione.
In questi anni abbiamo cercato di sperimentare forme di economia alternativa
(sostegno agli agricoltori biologici, agli artigiani sostenibili, creazione
di una rete di ospitalità in famiglia, Domus Amigas) basate su modi di
vivere non consumistici, più sobri ed ecologici, ispirati alla semplicità,
alla bellezza, al dono, alla convivialità, ad un rapporto aperto e solidale
con tutti.
Questo progetto ci ha permesso di conoscere, sostenere e collaborare con
tante piccole realtà produttive del territorio e di riscoprire la gioia di
progettare insieme la nostra vita e quella delle nostre comunità.
In questa prospettiva ci stanno a cuore scelte politiche non estranee ai
nostri contesti culturali, che permettano di preservarci dall'omologazione e
di conservare luoghi, storie, percorsi della memoria, ricreando condizioni
idonee alla rinascita di tante piccole realtà locali che pesino il meno
possibile sull'ambiente.
Vorremmo vedere riconsegnati gli antichi edifici della miniera ai nostri
giovani perché possano svolgere attività culturali e produttive sostenibili
( artigianato, centri per le energie alternative, danza, teatro, luoghi di
accoglienza per gruppi di giovani.).
Auspichiamo pertanto non una politica di vendita-svendita di alcune delle
più belle aree minerarie ma una politica di piccoli passi verso il
risanamento ambientale, con la bonifica di un sito minerario alla volta, la
programmazione pubblica della sua gestione, il coinvolgimento di soggetti
imprenditoriali locali.
Liberiamo dalle catene dell'immobilismo il Parco Geominerario Storico
Ambientale che ha acceso tante speranze per la conservazione e tutela di un
patrimonio storico, culturale e ambientale unico al mondo.

Iglesias 1 agosto 2006-08-01

La presidente dell'associazione C:S.A.

Teresa Piras
Avete letto bene. Duecentosessanta mila metri cubi di cemento si
abbatteranno sulle miniere abbandonate del Sulcis. Questo il dato che,
aldilà delle polemiche strumentali di un'improbabile destra ecologista,
riassume il senso dell'operazione voluta dal governo Soru.
Come mai chi si era distinto per una dichiarata sensibilità per tradizioni,
identità, ambiente - che gli faceva dire: «La Sardegna, cinquant'anni fa,
senza alberghi, valeva più di oggi» -, pare rimangiarsi tutto con un'operazione
che sa tanto di grandi numeri e poco di turismo responsabile, affidata com'è
ai Tronchetti Provera, ai Ligresti?
Soru sembra rispondere così: «Con la legge "salvacoste" e le norme del Piano
Paesaggistico, eviteremo l'edificazione selvaggia sulla costa; che male c'è
se in zone che ne sono prive favoriamo la costruzione di alberghi di lusso e
campi da golf? ».
Che male ci sia cerchiamo di spiegarlo.
Un campo da golf beve l'acqua di una cittadina di diecimila anime, e due
tonnellate l'anno di diserbanti; se è vicino al mare provoca salinizzazione
delle falde quindi moria di piante e animali; è spesso seguito da
speculazioni immobiliari, senza cui si rivela economicamente deficitario.
La costruzione ex novo, visto lo stato dei ruderi, di enormi fabbricati,
poi, introdurrebbe, e in fase di edificazione (disboscamento, traffico di
operai e mezzi pesanti, estrazione, movimentazione, lavorazione inerti e
cementi, costruzione vie di accesso, sistemi idrici, fognari, palificazioni
elettricità e telefonia, inquinamento suolo, aria, acqua) e in fase di
fruizione (carico antropico, scarichi, traffico veicoli, inquinamento suolo,
aria, acqua), danni irreparabili all'ambiente.
Di quale ambiente parliamo? Spiega il bando di vendita: "Sono le
architetture di un'epoca passata, elegantissime, sui fianchi di alte colline
affacciate verso il mare, a volte a ridosso delle spiagge, sovrastate dalle
creste di una catena montuosa frastagliata, fra boschi di leccio, macchia
mediterranea, foreste protette. Sorgono in una zona costiera, in gran parte
intatta e scampata alla edificazione che ha interessato molti tratti della
costa, e carica di suggestione, di bellezza e fascino."
Luoghi incantevoli e silenziosi, icone del lavoro e dell'identità dei sardi,
dove l'opera dell'uomo, edifici minerari di un secolo fa, il tempo ha
sposato con rara armonia agli alberi, alle pietre, al mare sempre furente.
Siti di Importanza Comunitaria (SIC), dove incontrare il cervo sardo e molte
specie protette.
Masua, col suo Pan di Zucchero. Naracauli, imponente come una reggia antica.
Piscinas, ecosistema fragilissimo, sistema dunale unico in Europa. Tre
esempi tra tanti.
Impossibile descrivere: visitateli. Ma fate presto.
E' il Parco Geominerario Storico Ambientale della Sardegna, Patrimonio dell'Umanità
per l'Unesco, che nella Carta di Cagliari fissava le linee guida per la sua
tutela. Disattese.
Ad aprile, la Regione ha presentato un "Bando per la cessione" di siti all'interno
del Parco - Ingurtosu, Masua, Monte Agruxau, Naracauli, Pitzinurri - per
farne "strutture alberghiere ricettive ... e per il golf".
In vendita. Previa bonifica da residui di miniera a spese del contribuente.
Con costi stimati elevatissimi, ammette la Regione. Concessione, forse, non
vendita, minimizza.
Bisogna vendere perché c'è da bonificare, aggiunge poi.
Il bando dice vendita. In ogni caso, i danni non sarebbero molto diversi. E
gli ecologisti: «Per bonificare ... servono migliaia di miliardi di vecchie
lire» (Tiana, Legambiente); «Un impegno economico ... così gravoso da far
supporre senza particolari difficoltà rischi di ipotesi di danno erariale»
(Deliperi, Amici della Terra). Ovvero, il rapporto costi benefici - il
prezzo "a base d'asta" è molto basso - sarebbe così sbilanciato da far
ipotizzare il danno erariale.
Perché si vende, allora?
Posti di lavoro, si dice. Una colata di 260 mila metri cubi di cemento per
pochi posti di lavoro - operai, camerieri - subordinato, temporaneo,
stagionale?
Ovvio che le popolazioni - si chiama ricatto occupazionale - potrebbero
essere favorevoli, ovvio lo siano i sindaci, ma dal presidente Soru ci
aspettavamo altro.
Dalla chimica alle servitù militari passando per il turismo, la Sardegna è
un crogiuolo di scelte "condivise" rivelatesi devastanti.
Allora?
Partendo da valutazioni di carattere generale - quel quinto di umanità che
divora i quattro quinti delle risorse, la corsa all'accaparramento, le
guerre conseguenti, i limiti dello "sviluppismo", il tracollo socio
ambientale del pianeta, la necessità di decrescita; dalla consapevolezza che
molto disagio sociale nasce dai richiami della cultura del consumo, che
spinge allo spreco e al conseguente impoverimento, e solo in parte dalla
relativa assenza di benessere; occorre percorrere la via dell'equità, della
cura, non della devastazione sociale od ambientale.
Come?
Pensiamo che maggiore qualità della vita per le comunità verrebbe da un
progetto che persegua il ponderato restauro di pochi stabili - poco per
volta, qual è la fretta? - da far gestire a imprese di giovani formati e
motivati in corsi di studio ad hoc, nel settore artistico (teatro, musica,
danza, poesia, tra dune e rovine), agrobiologico, energie alternative,
archeologia industriale, turismo geologico, paleontologico, escursionismo
sportivo, naturalistico, trattamenti medici, riabilitativi, campi di studio
e lavoro di ONG, gite scolastiche didattiche, mostre, albergo diffuso,
ristorazione con prodotti locali, biologici, equo solidali.
Promuovendo la magia dei luoghi, intercettando i flussi in crescita di
viaggiatori consapevoli, in fuga dalla pesante impronta ecologica di
villaggi vacanze e hotel di lusso.
Con un'opera di coinvolgimento delle popolazioni, impiegate gratuitamente
(quanti pensionati darebbero il loro apporto?) o secondo i principi della
banca del tempo (maturando soggiorni nelle strutture?) o remunerati (quanti
disoccupati troverebbero reddito?), che le portasse a far proprio il
processo di bonifica socioculturale ed ambientale delle aree.
E i soldi?
Si sta creando un comitato, crede in queste idee, le vuole finanziare con l'azionariato
popolare.
Ha bisogno di stimoli e proposte da chi, sul tema, ha maturato saperi ed
esperienze: scriveteci.
Due gli obbiettivi immediati: portare l'amministrazione regionale a cambiare
rotta, e dare ali al progetto.
Domani potremmo svegliarci con 260 mila metri cubi di cemento in più e un po'
di dignità in meno. Oppure creare un grande e bellissimo esperimento di
economia alternativa. Noi ci crediamo.

Sandro Martis
Lettere dell'Istituto n. 15
Marcinelle: 8. agosto 1956
8. agosto 2006
I Fatti.
A causa di un errore umano, l'otto agosto 1956 il Belgio venne
scosso da una tragedia senza precedenti, un incendio scoppiato in
uno dei pozzi della miniera di carbon fossile del Bois du Cazier,
causò la morte di 262 persone di dodici diverse nazionalità,
soprattutto italiane, 136 vittime, poi belghe, 95; fu una tragedia
agghiacciante, i minatori rimasero senza via di scampo, soffocati
dalle esalazioni di gas. Le operazioni di salvataggio furono
disperate fino al 23 agosto quando uno dei soccorritori pronunciò in
italiano: " Tutti cadaveri!".
In quegli anni partirono per il Belgio 140.000 lavoratori, 18.000
donne e 29.000 bambini.
Dal 1946 al 1956 il numero dei lavoratori, provenienti dall'Italia,
morti nelle miniere belghe e in altri incedenti sul lavoro è di
oltre seicento.
Nel 50° vi sono state iniziative e dichiarazioni da parte di
partiti e rappresentanti delle Istituzioni.
Tutto è stato proiettato in una dimensione asettica del disastro, di
qui la commemorazione. C'è chi ha voluto leggere tali morti come
momento della costruzione dell'Unione Europa, contributo del lavoro
italiano alla comune casa europea, come il Presidente del Consiglio
Romano Prodi.
Il Presidente della Camera da parte sua ha fermato invece il grave
dato che i morti sul lavoro continuano a mietere vittime, se la
stampa proprio dell'8. agosto. 2006 riportava accanto alla
Commemorazione di Marcinelle:
* Incidente anche alla Eskigel di Terni: 19 operai all'ospedale,
intossicati dall'ammoniaca
** Napoli, apprendista muratore di 16 anni muore in un cantiere.
Che vi sia un governo di centro sinistra non giustifica
affatto la vergognosa rimozione.
I crimini, i misfatti della borghesia italiana devono sempre essere
ben stigmatizzati, proprio perché tali crimini indicano bene cosa
sia " il mercato", " la centralità dell'impresa", la vera natura
della borghesia, della società capitalistica e la logica di morte e
disperazione del profitto.
Le cose stanno ben diversamente dall'asettico incidente.
I fatti indicano in maniera inappellabile un autentica: tratta degli
schiavi.

La tratta degli schiavi degli operai italiani
Alla fine della 2a guerra mondiale la civile Europa
occidentale avvia un profondo processo di riconversione industriale,
un nuovo ciclo di riproduzione allargata, basata sul modello
statunitense del fordismo. Questo richiede una massa di nuovi
lavoratori senza specializzazione, manovalanza. dalla ricostruzione
e sviluppo in campo edile, al potenziamento industriale ed
estrattivo.
Nella divisione internazionale del lavoro, scaturita dalla 2a guerra
mondiale, le zone povere dell'Italia sono destinate, deputate, a
fornire tramite l'emigrazione questa massa di forza-lavoro per il
nuovo ciclo economico dell'Europa occidentale e del nord d'Italia.
Contadini poveri, braccianti, artigiani piccoli commercianti,
venditori ambulanti ed il semiproletariato più in generale furono le
classi investite dal forte flusso migratorio. Nei paesi rimasero
solo donne vecchi e bambini: un autentico esodo biblico, uno
sradicamento politico, sociale, culturale violento.
Per poter emigrare in Belgio, Francia, Germania, Inghilterra,
Svizzera e nel nord d'Italia occorrevano soldi per poter pagare il "
viaggio della speranza". Venivano così venduti per poche lire la
casa, il fazzoletto di terra, arredi e strumenti di lavoro, tutto
per raggranellare i soldi per il " viaggio della speranza" e per il
restante ci si indebitava con prestiti usurai, fatti dagli stessi
agrari che compravano, pagati con il salario che si sarebbe
guadagnato con il lavoro in Francia, Germania, Svizzera,
Inghilterra, Belgio, nord Italia.
Costituì un'autentica rapina, una selvaggia accumulazione forzata,
un'estensione del latifondo agrario, della rendita parassitaria; un
violento processo di concentrazione monopolistica in cui la mafia,
la camorra, la ndrangheta ebbero un ruolo importante e costituì per
loro un autentica miniera di affari. erano essi che costituivano la
rete organizzativa di questi " viaggi della speranza" ed erano essi
la vera agenzia di lavoro.
Un periodo di inaudita violenza, di sanguinaria arroganza a cui
queste masse di lavoratori furono sottoposte per il nuovo ordine
internazionale del capitalismo monopolistico, per la nuova divisione
internazionale del lavoro del campo imperialista, uscito dalla 2a
guerra mondiale.
E… mafia, camorra, ndrangheta costituirono i referenti per le varie
Direzioni del Personale delle grandi fabbriche del nord d'Italia,
masse di lavoro in affitto, che dovevano parte del salario al
caporalato mafioso trapiantatosi al nord con i suoi referenti nelle
Direzione del Personale delle fabbriche e che costituiva massa di
manovra, controllata da forze reazionarie, per sindacati gialli
aziendali, anch'essi ben accreditati presso le Direzioni delle
fabbriche, nella lotta della borghesia contro il movimento dei
lavoratori, il movimento sindacale, il PCI e la CGIL.
Il governo centrale e periferico, le autorità centrali e periferiche
dello Stato ben sapevano di tali violenze, coprivano per garantirsi
sacche di voti di scambio, masse di manovre a comizi e codazzi
elettorali dei vari deputati e senatori e ministri e Presidenti di
turno e tutto sotto l'italica bandiera degli italici interessi,
dell'italico sviluppo.
Si costruisce qui una nuova alleanza tra mafia, camorra e
ndrangheta e borghesia monopolistica, che costituirà un pezzo
importante del blocco sociale che governerà il Paese.

Ma …. sorte ben peggiore toccherà a chi emigrerà fuori dal
Paese.
I passaporti di questi lavoratori saranno di tipo particolare,
di un particolare colore, in grado di ben distinguerli. Si disse per
distinguere la massa dei cittadini che si recavano all'estero.
Saranno i passaporti rossi.
La borghesia italiana, lo stato italiano, i governi democristiani e
suoi alleati di turno: repubblicani, liberali, socialisti e
socialdemocratici, monarchici e missini vendettero letteralmente
questi lavoratori ai padroni europei di Francia, Germania,
Inghilterra, Svizzera, Belgio, ecc.
Per ogni passaporto rosso la borghesia italiana riceveva
gratuitamente ogni anno una quota di materie prime o merci, quota
precedentemente stabilita; cosicché le varie borghesie europee oltre
al profitto, al sovrapprofitto, doveva estorcere dal lavoro di
questi italiani, questa autentica carne da cannone, un surplus che
ripagasse il costo delle materie prime e merci varie che dovevano
versare alla borghesia italiana.
Ovviamente l'Italia, lo Stato italiano, il governo democristiano
italiani, e quindi gli stessi consolati e le stesse ambasciate,
dovevano tacere sulle disumane condizioni di vita e di lavoro, le
condizioni quasi schiavili in cui venivano tenuti i lavoratori
italiani.
Un'autentica tratta degli schiavi.
Incaprettati venivano consegnati ai fratelli macellai d'Europa.
Questi lavoratori vivevano in baracche, ammassati in 5-7 e più
persone e dove la propaganda razzista contro i meridionali
costituivano la foglia ideologica per prezzi esorbitanti d'affitto,
l'esclusione da locali, servizi, per la ghettizzazione, la foglia
ideologica per esercitare, e giustificare, una repressione feroce in
violazione di tutti i diritti umani, di privacy, di diritti
personali, per aumentare il ricatto ed asservire i lavoratori
italiani ancora di più. Ed a tutto questo ben serviva la propaganda
ideologica razzista contro i lavoratori italiani ed ovviamente essa
era ben più prospera ed attiva nelle località di maggiore
concentrazione di lavoratori immigrati.
Molti moriranno di fame, di stenti, di malattie professionale e non.
Le condizioni igieniche, le condizioni alimentari erano pessime
mentre pesante era il lavoro, che richiedeva un apporto
nutrizionale, calorico e proteico, maggiore. Ma tutto doveva essere
risparmiato e di tutto si privavano i soldi dovevano inviarli al
paese alle mogli, ai figli , ai genitori, che si erano di tutto
privati per raccogliere i soldi per " il viaggio della speranza".
Bisognava pagare il prestito usuraio contratto con gli agrari che
avevano rastrellato prima tutti gli averi per pochi centesimi ed
avevano provveduto ad integrare quanto mancava con prestiti usurai:
terra, beni diversi rastrellati anche dalla Chiesa tramite loro
società immobiliari, finanziarie, terra e beni che andavano a
rafforzare il latifondo vaticano, la rendita parassitaria agraria ed
immobiliare vaticana. Non c'era famiglia da tutelare qui, non c'era
la vita da salvaguardare: c'erano i prestiti usurai da esigere e
terre e beni e sfratti e vendite fallimentari da tutelare, c'era la
vita del capitale finanziario parassitario vaticano da salvaguardare.
E … con questa rimessa degli emigrati il bilancio dello Stato
italiano andrà in pareggio negli anni 1960-65, unica volta in tutta
la storia dell'italico bilancio, pareggio che consentirà un surplus
per l'accumulazione allargata e che costituirà la base reale,
concreta, materiale del " boom economico" : " boom economico"
prodotto dalle sofferenze, le sopraffazioni, le violenze subite dai
lavoratori italiani.
Ferma e decisa sarà l'opposizione. la denuncia e la lotta
dei comunisti, primo fra tutti Giorgio Amendola, Li Causi, ma lo
stesso Reichilin e tanti altri, eccellenti meridionalisti,
opposizione segnata da morti ed attentati da parte di mafia,
camorra, ndrangheta e forze reazionarie, segnata da una scia di
sangue, violenza sopraffazione, angherie, arroganze, " cammurria",
in cui tra gli altri cadde l'Onorevole del P.C.I. Pio La Torre.
In chiusura, Bisogna dire del severo monito del Presidente della
Camera, che commentando i fatti di Marcinelle ha fatto rilevare come
tali morti continuano a segnare il Paese, non ultimi proprio gli
incidenti sul lavoro, di cui uno mortale, proprio segnalati dalla
stampa lo stesso 8. agosto. 2006 ove un operaio di appena 16 anni
moriva a Napoli e 16 operai di Terni venivano ricoverati per gravi
intossicazioni.
Monito severo e di alto profilo, se inquadrato nel momento in cui
tale affermazione è stata fatta dal Presidente della Camera, che ha
voluto caratterizzare il suo insediamento richiamandosi ai
lavoratori ed al movimento operaio italiano. Il richiamo del
Presidente della Camera avviene all'indomani dell'approvazione da
parte del Parlamento dell'Indulto, ove per la prima volta sono
inclusi i reati inerenti la sicurezza sul lavoro.
" Il disegno di legge n. 525 sull'indulto, riduce di tre anni le
pene irrogate per procedimenti penali già conclusi o ancora in corso
per reati commessi entro il 2 maggio 2006.
Nel campo del lavoro il colpo di spugna sarà pressoché totale e non
soltanto per gli illeciti attinenti alla sicurezza del lavoro, le
cui pene non sono mai molto alte, ma anche per odiosi illeciti di
carattere economico quali il doloso impossessamento di trattenute
previdenziali e fiscali operate sulla busta paga e i comportamenti
truffaldini all'ordine del giorno nella fascia del lavoro nero o
grigio. Si pensi in proposito alla diffusa prassi vigente nel mondo
delle imprese medio piccole e marginali di obbligare il lavoratore
alla restituzione di parte della retribuzione percepita o di
costringere, con il ricatto occupazionale, a dare quietanza per
importi superiori a quelli effettivamente ricevuti.
Il venir meno del timore di sanzioni penali concrete comporterà,
come è ovvio (e già se ne è fatta l'esperienza in molte controversie
in tema di omicidi "bianchi" per amianto), un irrigidimento o un
rifiuto dei responsabili nel risarcire le vittime degli illeciti o
dei loro eredi. Da questo punto di vista l'obiezione, pur
tecnicamente fondata, che un indulto fa venir meno la pena, ma non
il reato e dunque lascia aperta la strada al risarcimento del danno
dell'illecito sul piano civile, non tiene conto delle effettive
dinamiche della controversia. Infatti la sanzione penale e non
quella civile, soggetta a tempi lunghissimi, è quella che
maggiormente pone le basi per un'effettiva disponibilità del reo a
pervenire a soluzioni risarcitorie.
Ricordiamo che in occasione di precedenti provvedimenti di clemenza
si sono esclusi i reati riguardanti specificamente il cosiddetto
diritto penale del lavoro, proprio in considerazione della valenza
prevenzionistica e non solo repressiva della punibilità penale di
atti illeciti commessi in danno dei lavoratori e dunque di
particolare rilievo sociale.
In conclusione gli esempi che si potrebbero fare sono numerosi.
Oltre la violazione del d.lgs. n. 626/1994 in materia di sicurezza
del lavoro (in particolare artt. 89 e ss.), si può citare ancora il
mancato adempimento all'obbligo del giudice in caso di condotta
antisindacale (art. 650 c.p.); Somministrazione fraudolenta;
Caporalato illecito; Truffa per erogazioni pubbliche disciplinate
dall'art. 640 bis c.p.; Art. 38 dello Statuto dei lavoratori in
materia di accertamenti sanitari illeciti; Controlli illeciti della
guardiania dell'azienda; Discriminazione nelle assunzioni per
appartenenza sindacale."

ISTITUTO DI STUDI COMUNISTI
KARL MARX – FRIEDRICH ENGELS

mercoledì 9 agosto 2006

lunedì, luglio 31, 2006

CONSULTA STATUTARIA:E’ L’ORA DEL CORAGGIO E DELL’AMBIZIONE

PROVINCIA DI CAGLIARI
PROVINCIA DE CASTEDDU

COMUNICATO STAMPA

CONSULTA STATUTARIA:
E’ L’ORA DEL CORAGGIO E DELL’AMBIZIONE


“La decisione del Consiglio dei ministri di ricorrere contro la legge regionale sulla Consulta statutaria è sbagliata nei tempi, nel metodo ed anche anacronistica nella sostanza”.

Così il presidente della Provincia di Cagliari, Graziano Milia, che aggiunge:

”Forse il Governo confonde il concetto di Stato con quello di Nazione e forse ha dimenticato i contenuti della riforma del titolo V della Costituzione. Il concetto di sovranità richiamato nella legge regionale, nell’ambito di una unità statale che nessuno ha mai messo in discussione, nulla è di più che la naturale evoluzione di quella autonomia speciale di cui fino ad oggi ha goduto l’Isola”.

“In tal senso e in quanto tale – dice Milia – la sovranità è un concetto astratto, che è stato richiamato dal legislatore sardo per introdurre forme più avanzate di autonomia, in linea coi tempi e con la riforma della Costituzione. Quindi una semplice cornice di riferimento, che dovrà essere riempita di contenuti con la determinazione dei poteri che si vogliono esercitare e di come si vogliono esercitare”.

Per il presidente Milia, “questa è l’ora del coraggio e dell’ambizione, occorre superare l’approccio burocratico frapposto dal Governo e attivare al più presto la Consulta per arrivare rapidamente a definire i contenuti del nuovo Statuto sardo. In tal senso ha ragione il presidente del Consiglio Regionale Spissu, bisogna comunque andare avanti, entrare nel merito e definire i contenuti del nuovo Statuto, poi si potrà obiettare sull’eventuale superamento di quei limiti di sovranità su cui la Corte costituzionale si è più volte espressa, peraltro sostenendo che non esiste un’unica sede istituzionale dove tale sovranità possa esaurirsi”.

“Peraltro - conclude Milia - vorrei fare notare che se il concetto di sovranità può essere ricondotto a quello di nazione, uno degli elementi costitutivi è senz’altro la lingua e in tal senso, con la legge 482/99, il Parlamento ha riconosciuto la lingua sarda come espressione del popolo sardo”.



Cagliari, 31.07.2006

mercoledì, luglio 26, 2006

Miniere. UNDICI DONNE POVERE E UNA RICCA

Il 4 maggio 1871, nella miniera di Montevecchio, un gruppo di donne, finito il duro lavoro, tornò al dormitorio. Era il luogo della solidarietà, della condivisione ma anche delle liti furibonde: per un po' di pane, di lardo, un uovo, una cipolla. Erano fame e sofferenza.

L'inverno la stagione più temuta. Fortuna che era finito!

Da poco era stato costruito un serbatoio per l'acqua della vicina laveria, sopra la baracca.

Alle 18,30 venne giù. Sfondò il tetto. Ne uccise undici.

La più vecchia cinquanta anni, la più giovane dieci. Non risultarono responsabilità, «essendo che l'ingegnere stesso al quale sono affidati gli esterni lavori dello stabilimento pochi minuti prima della catastrofe passeggiava fiducioso sull'argine rovinato del serbatoio», chiarì il sottoprefetto.

La moglie dell'industriale brianzolo, nella camera dell'Albergo dei Minatori Golf Club di Naracauli, 140 anni dopo, tirò la maniglia dello sciacquone.

Le stanze erano very trendy, impregnate di sardità. Pietre e legni ricercati.

Come un secolo prima, l'acqua venne giù furente. Costellando di schizzi la gonna di Prada. Adirata, chiamò il boy della reception, che, mortificato, si scusò con accento settentrionale. Era sardo.

Risultarono responsabilità della chambermaid e del manutentore.

Il maelström del cesso si era risucchiato la dignità di un popolo.

Fin dagli indomiti Shardana, navigatori guerrieri, l'acqua, in farsa e in tragedia, aveva segnato il povero destino dei sardi. Rubata alle comunità, innaffiava placida il green oltre la finestra.

Mettiamola così. C'è un parco che non funziona e amministratori che chiedono sviluppo.

A nessuno passa per la testa che ci siamo sviluppati fin troppo, siamo quel quinto di umanità che divora quattro quinti delle risorse del pianeta, la corsa all'accaparramento provoca le guerre, avanti di questo passo il tracollo socio ambientale sarà inevitabile, si debba, e si possa, aumentare il ben essere tramite ridistribuzione e cura anziché saccheggio?

Duecentosessantamila metri cubi di cemento. Quattro posti da cameriere. Bonifica a spese della collettività. E costerà, ammettono, da dieci a cento volte il ricavato della vendita. Un capolavoro.

La terra piano piano si è ripresa quei luoghi. E quelle rovine, monumento al dolore e alla fatica, custodiscono le nostre radici. Un patrimonio enorme in termini ambientali, culturali, identitari.

Regaliamolo a lorsignori.

Sandro Martis

venerdì, luglio 07, 2006

UNA COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA SUI FATTI DEL G8 DI GENOVA

APPELLO PER UNA COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA SUI FATTI DEL G8 DI GENOVA


In Italia, nel luglio del 2001, abbiamo vissuto quella che Amnesty
International ha definito "la più grave sospensione dei diritti democratici
in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale".
Quella ferita, inferta così violentemente il 20 e 21 luglio, ha lasciato
un'ennesima macchia di sangue nelle pagine della storia del nostro paese,
il sangue di migliaia di giovani umiliati, malmenati e torturati da coloro
che sarebbero stati addetti a preservarne la sicurezza; la vita rubata al
giovane Carlo Giuliani, vittima sacrificale di una mattanza indistinta.
La ferita dei giorni di Genova è rimasta aperta e dolorante nelle coscienze
di tanti italiani e italiane che ancora s'interrogano sulle responsabilità
politiche e materiali di quei gravi fatti, di chi si chiede come mai a
cinque anni di distanza ancora non si sia fatta chiarezza sulla linea di
comando, sulle inadempienze, sugli abusi di potere, sugli occultamenti di
prove o sulla loro invenzione.
Subito dopo quegli avvenimenti fu istituita una Commissione di indagine
conoscitiva bicamerale dotata di poteri d'indagine limitati. La natura
stessa della Commisione, nonché il breve tempo in cui si svolsero i lavori
(conclusi il 20 settembre 2001) denotano la volontà del governo di
centrodestra di chiudere velocemente la faccenda, auto-assolvendosi agli
occhi del Paese. Tale Commissione ha conseguentemente prodotto solo una
sommaria e lacunosa ricostruzione dei fatti accaduti a Genova, senza
arrivare ad una ricostruzione puntuale degli avvenimenti.
Anche i successivi eventi processuali (a cominciare dalla archiviazione
dell'omicidio di Carlo Giuliani) sono risultati viziati dalla stessa
logica: chiudere la "pratica Genova" nel più breve tempo possibile. Si sono
dunque banalizzati i fatti, riconducendoli ad una logica di "manifestanti
violenti" contrapposti a "sporadici eccessi delle forze dell'ordine". Tutto
questo col risultato di non poter vedere la precisa linea di repressione
del dissenso di cui Genova ha costituito l'episodio più grave, seguito da
altri meno noti ma non per questo meno inquietanti. Seguendo il solco
ideale del disinteresse tracciato dalla Commissione parlamentare, possiamo
leggere non solo le vicende processuali, ma anche la grave distrazione dei
maggiori media italiani, che stanno lasciando scivolare i processi in corso
per i fatti di Genova nella più completa apatia.
Se il nuovo governo vuole imprimere una svolta democratica al nostro paese,
da qui deve cominciare, perché non può esserci futuro democratico laddove
una macchia così grave viene lasciata alle spalle, perché non può esservi
saldezza di diritti in un paese in cui rimangono troppi dubbi sull'omicidio
di un giovane ad una manifestazione.
Il giorno dell'insediamento del nuovo governo è stato ripresentato al
Senato un disegno di legge sostenuto da 60 senatori e senatrici che prevede
l'istituzione di una commissione d'inchiesta sui giorni del G8 che abbia
gli stessi poteri dell'autorità giudiziaria, che possa cioè utilizzare
tutti gli strumenti utili ad acquisire informazioni necessarie al
raggiungimento della verità. Analoga iniziativa è in corso alla Camera dei
deputati, con la possibilità quindi di ottenere una Commissione bicamerale,
che avrebbe ancora più peso politico. E' urgente che questo disegno di
legge venga discusso al più presto dal Parlamento per essere approvato e
l'inchiesta possa rapidamente partire.
E' necessario che tutti e tutte coloro che in questi anni hanno condiviso
la lotta per ottenere verità e giustizia si impegnino a far si che ciò
avvenga. Bisogna insistere affinché ogni parlamentare si senta in dovere di
assolvere una richiesta forte proveniente dal paese: nessuna lungaggine
burocratica, nessun ostacolo dovrà frapporsi questa volta all'istituzione
di un organismo, realmente aperto all'ascolto di tutti i soggetti che hanno
faticosamente lavorato in questi anni alla ricostruzione dei fatti, e che
possa dunque far luce sul black out di civiltà che ha investito il nostro
paese nel luglio del 2001.

Chiediamo a tutti e tutte di impegnarsi attivamente affinché si possa
finalmente in questo Paese, almeno su questa vicenda, restituire alle
parole verità e giustizia il loro significato.

PER ADESIONI SCRIVERE A:
guidaccio@gmail.com

domenica, luglio 02, 2006

Privatizzare? Meglio di no, ma se c'è un buon progetto...

da La Nuova Sardegna, 2 luglio 2006


Edoardo Salzano, urbanista contro. MAURO LISSIA




CAGLIARI. Edoardo Eddy Salzano è professore ordinario di urbanistica nel dipartimento di pianificazione dell'università Iuav di Venezia, dove è stato presidente di corso di laurea e preside della facoltà di Pianificazione del territorio. Consulente di amministrazioni pubbliche per la pianificazione territoriale e urbanistica in tutta Italia, ha scritto saggi importanti e pubblicazioni specializzate. E' nato a Napoli, ha vissuto a lungo a Roma e dal 1975 abita a Venezia. Salzano è stato amministratore pubblico sia nel Lazio sia in Veneto. Autore di un aggiornatissimo sito (www.eddyburg.it) diventato rapidamente un riferimento per chiunque si occupi di urbanistica e ambiente, è oggi impegnato in una battaglia pubblicistica aspra contro la realizzazione di opere faraoniche come il Mose a Venezia e il ponte sullo stretto di Messina, che giudica inutili e dannose. Non ha paura di schierarsi: sulla porta della sua casa nel quartiere storico di Dorsoduro, vicino a piazza San Marco, campeggiano due bandiere con la scritta 'No Mose'. A settantacinque anni, Salzano è considerato una delle massime autorità nel suo campo ed è sulla base dei suoi titoli che Renato Soru l'ha chiamato a coordinare il comitato scientifico incaricato di elaborare la filosofia del nuovo piano paesaggistico regionale, approvato di recente dalla giunta sarda di centrosinistra. Sulla scia delle polemiche nate attorno alla scelta del governo Soru di mettere all'asta il compendio storico minerario del Sulcis gli abbiamo chiesto di rispondere ad alcune delle critiche lanciate in questi giorni dagli oppositori del piano. Ecco che cosa ci ha risposto.



Privatizzare? Meglio di no ma se c'è un buon progetto... Parla il coordinatore del nuovo piano paesaggistico della Regione.

MAURO LISSIA



VENEZIA. - Professor Salzano, la Regione ha messo all'asta il compendio minerario del Sulcis, vuole farne un paradiso delle vacanze con campi da golf. Il bando scade domani. Condivide la scelta?

"Quando un ente pubblico decide di alienare i suoi beni io sono sempre contrario. Una cosa sono le regole delle trasformazioni fisiche, un'altra sono le funzioni che si stabiliscono attraverso i piani, un'altra ancora è il regime proprietario. Come regola generale io sono anti-tremontiano, la proprietà è una garanzia in ogni caso. Ho apprezzato l'iniziativa di Renato Soru di avviare la conservatoria delle coste ma in questo caso sono contrario. Bisogna però vedere che cosa si fa col ricavato della vendita...".

- La base d'asta è 44 milioni per 647 ettari di terre pregiatissime. Chi compra fa un affare...

"Sì, in termini generali io sarei per una concessione onerosa. Dà garanzie maggiori al pubblico".

- Lei ha coordinato l'elaborazione del piano paesaggistico della Sardegna, cui hanno lavorato intellettuali di diversa provenienza e inclinazione. A leggerne la filosofia sembra che l’orientamento sull’uso degli spazi storici fosse diverso. Nel testo sono numerosi i richiami alla salvaguardia dell’identità dei luoghi e alla conservazione filologica dei manufatti. Ma nel bando è prevista anche la demolizione.

"L'orientamento era di escludere le seconde case, per ora sulla fascia costiera. Qui le garanzie le abbiamo messe e sono chiare".

- Però nel piano si parla in termini aspramente critici di corsa alla privatizzazione. Gli oppositori dicono che la scelta di vendere il Sulcis minerario va in controtendenza rispetto allo spirito dello strumento di pianificazione.

"Nel nostro lavoro siamo partiti con un fantasma davanti agli occhi, quello dei villaggi turistici, queste oscenità... Un gruppo milanese o belga va in Sardegna, compra la terra dell'allevatore e ci costruisce uno di quegli obbrobri che conosciamo. Invece la trasformazione di certi edifici pubblici, che io comunque tenderei a evitare, non mi scandalizza. Se l'ipotesi è realizzare alberghi e gli alberghi sono necessari, se li fanno i privati e la Regione ha bisogno di vendere per raccogliere quattrini utili a comprare aree a rischio sulla costa e finanziare la conservatoria...".

- Sta dicendo che il fine giustifica i mezzi?

"No, ripeto: il pubblico è meglio che conservi il proprio patrimonio immobiliare".

- In questo caso anche un patrimonio affettivo, forse per questo la protesta sta montando...

"Va ricordato che il piano è solo un atto amministrativo, non può imporre un atteggiamento ascetico".

- La relazione scientifica allegata al piano sembra qualcosa di più che un semplice atto amministrativo.

"Certo, ci hanno lavorato anche scrittori... Mi spiego meglio: io sono nettamente contrario alla privatizzazione generalizzata. Ma se dietro alla dismissione c'è un ragionamento, una finalizzazione, allora se ne può discutere, purchè le finalizzazioni ci siano e siano conformi al piano. Lo slogan di partenza è stato 'non vogliamo cancellare il turismo, vogliamo modificarlo' per godere in modo controllato di questo patrimonio di bellezza incentivando le attività ricettive".

- Ma lei è convinto che il turismo possa essere davvero una risorsa economica per la Sardegna del futuro?

"Solo se la Sardegna riesce a conservare la qualità dei suoi siti".

- Nel piano la parola valorizzazione, riferita ai luoghi, viene definita parola fantasma, rottame di parola.

"I grandi economisti del passato, da Adamo Smith a Carlo Marx, distinguevano due valori: il valore d'uso e il valore di scambio. Il valore usato per le sue caratteristiche proprie e quello che ha in quanto merce. L'aria non è un valore di scambio, come l'acqua pulita. Allora: quando noi parliamo di valorizzare un bene possiamo parlarne nel senso di rendere quel bene una merce e far sì che il proprietario ne ottenga un lucro. Oppure che mettiamo in evidenza, conserviamo e accresciamo il valore d'uso, l'eccezionalità, la rarità, la qualità propria di quel bene. In genere il termine valorizzazione viene usato nel primo senso, a me quello giusto sembra il secondo".

- Qual è la linea di confine tra uso e abuso del bene ambientale?

"Capire quali sono le trasformazioni ammissibili per quel determinato bene, nel senso che ne conservano e ne mettono in evidenza il valore, e quelle che invece ne diminuiscono la qualità".

- E' accettabile che a individuare questa linea di confine siano i politici?

"Questa è la democrazia, baby (sorride) ... non ci si può far niente. Per pianificare la Sardegna sono state scelte persone che fra di loro non avevano alcun rapporto, io non conoscevo Soru e lui non conosceva me...".

- Un'anomalia felice?

"Diciamo pure che dopo lunghi tira e molla siamo rimasti tutti soddisfatti di questo piano paesaggistico".

- Malgrado molti amministratori locali dicano che il piano è generico, che è troppo complesso?

"E' un piano che richiede una collaborazione da parte di chi deve approfondire le cose. Da questo punto di vista è difficile, perchè chiede a Province e Comuni un impegno nell'approfondimento dell'analisi, chiede di definire meglio i confini che noi abbiamo individuato, di farsi carico di una serie di cose di cui l'urbanistica tradizionale non si faceva carico perchè era rivolta alla ricostruzione, mentre qui il piano è finalizzato alla tutela del paesaggio".

- C'è però chi lo legge come un piano di divieti.

"Non c'è dubbio, lo è per l'urbanistica edificatoria. Ci sono due modi di pianificare: il primo è dire 'sul territorio si può fare tutto' in base alle convenienze dei privati o della comunità locale. L'altra impostazione è legata alla legge Galasso, che risale al 1985 e dice: il territorio è quello che è, verifichiamo in primo luogo che cosa si può trasformare e secondo quali regole. Quando abbiamo individuato le aree in cui le trasformazioni possono anche essere pesanti, allora decidiamo che cosa si può fare in queste aree. Ma partiamo dal territorio, non dal cemento. La domanda è: questa impostazione a quali classi economiche, ceti sociali, interessi economici serve e quali contrasta?".

- Risposta scontata...

"Purtroppo gli oppositori più accaniti di questa impostazione sono i più dotati di mezzi di comunicazione, questo è il problema...".

- E' un piano ambientalista?

"E' un piano che piace agli ambientalisti, che consente di realizzare qualità nuove in coerenza con quelle attuali".

- Non toccare il territorio intatto, un passaggio del piano che colpisce per l'idea di rigore che contiene.

"E' un pallino di Soru. Ci ha detto: per favore, quello che non è stato toccato si lascia stare, sul resto discutiamo. Io sono d'accordo. Stiamo per presentare a un gruppo di parlamentari dell'Ulivo un disegno di legge in cui diciamo che l'obiettivo è fare come altri paesi del mondo: il territorio non edificato e urbanizzato viene trasformato solo se si dimostra che le cose che si vogliono fare là non si potevano fare altrove".

- In Sardegna sono proprio i Comuni che hanno il territorio intatto a protestare per i divieti.

"Non capiscono che sono i più fortunati. Ma una carenza nel piano c'è: quando noi diciamo che le costruzioni vanno realizzate nelle aree adiacenti i centri urbani non diciamo che poi bisognerà farsi carico di un sistema di trasporti fra questi centri e la costa. E' un problema di organizzazione della mobilità, che non significa fare strade ma sistemi di trasporto leggeri. Bisogna lavorarci sopra, ma questo è un compito che spetta alla successiva pianificazione".

- Che cosa direbbe al sindaco di un piccolo paese costiero della Sardegna che protesta: io non ho altro modo per dare lavoro ai miei compaesani, ci sarebbe il turismo ma la Regione...

"Gli direi che vicino al paese può costruire... vediamo quante case vuote ci sono in quel paese. C'è da fare un enorme lavoro di recupero del patrimonio edilizio esistente. Fra l'altro chi costruisce un villaggio turistico ex novo compra i materiali all'esterno e li assembla in Sardegna, finestre, stipiti... e dunque il moltiplicatore economico è bassissimo. Chi invece ristruttura e riorganizza impiega manodopera locale, materiale, artigianato locale... lo dice Soru e ha ragione".

- C'è qualche carenza importante?

"Le norme sono ancora un po' confuse. Sarebbero stati necessari altri sei mesi di lavoro per realizzare una cosa più semplice dal punto di vista dell'utilizzatore delle norme. Sono d'accordo sul fatto che ci siano diverse categorie di beni da tutelare, che la Regione individua. E norme riferite agli ambiti di paesaggio che rinviano alla pianificazione successiva. Con un ulteriore sforzo si poteva fare qualcosa di più semplice, ma trovo miracoloso come sia stato raccolto il materiale informativo, un grande risultato che oggi viene citato con favore da molti autorevoli urbanisti. Roberto Gambino del Politecnico, membro di molti organismi internazionali, non è soddisfatto di alcune cose ma comparativamente giudica il piano il migliore in Italia. E lui ne ha fatti molti".

- A cosa è ancorata la critica di Gambino?

"Alla distinzione dei livelli di qualità dei siti e io sono d'accordo con lui. Non ha senso dire: questo bene vale più di quest'altro e un po' meno di quest'altro ancora. Bisogna individuare le caratteristiche proprie di quel bene e poi tutelare quelle. Ma questa distinzione compare nel codice Urbani, anche se per fortuna nell'ultima edizione si è un po' stemperata".

- Qual è il bene più importante da tutelare nell'isola?

"La consapevolezza che i sardi hanno della qualità del proprio territorio".

- Che cos'è il paesaggio, professore?

"Secondo il modello europeo, secondo me pericoloso, è quello che viene percepito dalla gente. Ma io chiedo: quale gente? Quale? Se noi pensiamo a com'è la gente oggi, il termine gente lo abolirei, ci rendiamo conto che molte situzioni prima di poterti affidare all'intuito e alla comune opinione della gente devi fare un'opera di educazione che è stata interrotta. Allora meglio rivendicare la responsabilità dei poteri centrali, garantita dalla legge".

- E' cresciuta la sensibilità ambientale negli ultimi anni?

"Solo in porzioni minoritarie della popolazione. L'Italia è ancora il paese in cui la gente spazza l'immondizia fuori sulla strada perchè poi sulla strada ci pensano gli altri".

- Allora questo è un piano impopolare?

"Dipende da come funziona la Sardegna... i sardi che conosco hanno un grande orgoglio del proprio territorio, anche se poi non si traduce sempre in atti reali".

- L'eolico, professore. Giusto frenarne la diffusione?

"C'è stato purtroppo un gap fra le parole d'ordine dell'ambientalismo e l'attuazione pratica. L'ambientalismo ha detto giustamente: energie rinnovabili. Una è l'eolico. Dopo di che è mancato il passaggio del potere pubblico: studiare e verificare quali sono le fonti di energia rinnovabili, quali i vantaggi di ciascuna di queste e sulla base di questo fare un piano energetico nazionale. Quindi i progetti, gli standard per realizzare questo o l'altro, infine largo alle imprese. Qui l'iniziativa è partita dalle imprese, che portano enormi materiali assolutamente invasivi. Provocano enormi devastazioni nel paesaggio e sono impianti che non vanno bene in un terreno accidentato come quello sardo. Dove invece si potrebbe sviluppare il fotovoltaico".

- Nel piano manca una disciplina della luce, dell'uso dell'illuminazione pubblica.

"E' un problema che non ho mai visto trattato in uno strumento di pianificazione, certo poteva essere un'occasione visto che negli ultimi tempi se ne parla molto in Italia e in Europa. Ma guardi... non è mai stato fatto un piano paesaggistico così imponente in tempi così ridotti. Si è fatto il possibile".

- Qual è il prossimo passo?

"Dovremo lavorare sulla legge Floris, che partiva da un decreto sugli standard, sulle quantità minime di spazi pubblici. Sulle zone interne penso che sarà elaborato un piano a parte. Certo le pressioni e gli interessi sono minori, quindi non c'è urgenza. Forse però prima di trattare i problemi dell'interno sarebbe utile definire la legge urbanistica regionale e fare una pianificazione non solo paesaggistica. La legge Galasso dava due possibilità: fare diversi piani paesaggistici oppure piani ordinari con particolare considerazione ai valori paesistici e ambientali, i piani territoriali di coordinamento. Ecco, forse varrebbe la pena di fare un piano territoriale regionale".