martedì, novembre 21, 2006

Portualità come motore di sviluppo

PROVINCIA DI CAGLIARI
PROVINCIA DE CASTEDDU
Presidenza



COMUNICATO STAMPA

Portualità come motore di sviluppo
dell’economia del Meridione



Nasce nel mediterraneo il primo Sistema integrato della portualità e l’artefice è la Provincia di Cagliari. Con il coordinamento del presidente nazionale dell’Unione Province Italiane (UPI), Fabio Melilli, le amministrazioni provinciali di Taranto e Reggio Calabria hanno accolto favorevolmente la proposta di creare un Sistema integrato della portualità avanzata dall’amministrazione provinciale guidata da Graziano Milia. L’incontro, tenutosi a Roma presso la sede dell’UPI, ha evidenziato il comune interesse delle tre amministrazioni provinciali per la promozione, l’integrazione e lo sviluppo comune degli Hub containers di Cagliari, Taranto e Gioia Tauro. L’obiettivo è creare una piattaforma mediterranea integrata di interesse comunitario, che abbia le potenzialità per candidarsi ad intercettare la grande parte dei traffici commerciali marittimi del Mediterraneo (24 porti), quelli da e per l’oriente (Cina, Giappone, Corea, Costa del Pacifico degli USA), ma anche verso l’economie emergenti dell’Africa.

L’accordo prevede lo studio e la realizzazione di un progetto operativo legato alla portualità e a tutte le relative attività indotte e dei servizi (logistica, cantieristica, catering, manutenzione, stoccaggio, etc), verso un sistema integrato che consenta di connettere le diverse strutture e soggetti che operano nel transhipment, in modo da ottimizzare anche le soluzioni di continuità tra la rete stradale e ferroviaria e l’offerta di trasporto via mare, assai più economica (il rapporto di costo strada/mare è infatti di 4 ad 1), meno inquinante e produttiva.

Questo progetto dovrà vedere la luce entro sei mesi, per essere poi sottoposto al Governo nazionale e all’Unione europea. Tra gli altri obiettivi che si ripropone di raggiungere l’accordo c’è anche quello della condivisione delle competenze, conoscenze e risorse umane tra i diversi soggetti che operano nei tre Hub terminal di Cagliari, Taranto e Gioia Tauro, promuovendo e sviluppando così le potenzialità economiche locali e integrando le stesse con le politiche di sviluppo del meridione prefigurate dal Governo nazionale.

Un accordo di cui sicuramente si parlerà a Cagliari (Hotel Mediterraneo) il prossimo 23 novembre, in un convegno nazionale organizzato dai Democratici di sinistra, dal titolo “L'Italia porta d'Oriente: la portualità nell'era della globalizzazione". I lavori saranno aperti alle 9.30 dal presidente della Provincia di Cagliari, Graziano Milia. Sono previsti interventi di Antonello Cabras, Giulio Calvisi, Michele Meta (Presidente commissione Trasporti della Camera), Enzo Amendola, segretario nazionale Ds, responsabile per il Mezzogiorno), Tang Heng (Ambasciata cinese in Italia), Cecilia Battistello (presidente Contship), Giuliano Gallanti (presidente Espo), Angelo Capodicasa (viceministro delle Infrastrutture), Cesare De Piccoli (viceministro dei Trasporti), Francesco Nerli (presidente di Assoporti) Fabrizio Solari (segretario nazionale della Filt-Cgil) e Roberto Rupoli (presidente Ancip). Le conclusioni del convegno saranno affidate al segretario nazionale dei Ds, Piero Fassino.



Cagliari, 20 novembre 2006


Ufficio Stampa

domenica, novembre 12, 2006

I sogni interrotti di «Sa Pibinca»

Un carinissimo articolo su Dario Silva, pubblicato su il manifesto dell'11/11/2006


I sogni interrotti di «Sa Pibinca»


Un incidente d'auto ha chiuso la carriera dell'ex attaccante del Cagliari Darìo Silva. Dal dialetto sardo alle lezioni del Trap, la rinascita allegra e testarda di un ballerino uruguagio che ha girato il mondo inseguendo il gol

Malcom Pagani

Non che una servisse più dell'altra. Erano entrambe necessarie. Darìo Silva faceva correre le gambe più veloci del pensiero. Partiva da solo, non sempre arrivava. Dall'alto di una tribuna o dal basso di una curva, era difficile non accorgersi di lui. Gol meravigliosi ed orrori sotto porta, capelli afro color platino e una totale interazione col pubblico. Il sorriso pieno di chi ha realizzato un sogno: «Mio padre faceva il giardiniere del campo da calcio della città in cui sono nato». A Trenta y Tres il tempo libero bisognava inventarselo. «Papà tagliava l'erba e io ne approfittavo per mettere in scena uno spettacolo. Non c'erano avversari, mi portavo un pallone e calciavo per ore. Per me giocare non è mai stato un lavoro. Soltanto una bellissima avventura, come la vita stessa. Non ho mai pensato che avrei dovuto guadagnare soldi per trovare il mio posto nel mondo e guardavo allo sport come puro divertimento. Anche dopo una sconfitta la rabbia durava lo spazio di un secondo. Possedevo un'allegria diversa dai miei compagni, gliele leggevo in faccia le preoccupazioni. Non le ho mai capite».
Darìo adesso è fermo. La luce si è spenta quando la sua Jeep ha abbattuto un palo dell'energia elettrica sul lungomare di Montevideo. Era l'alba del 24 settembre. A Elbio Pappa e Dardo Pereira, i due calciatori che erano con lui, è toccata qualche escoriazione, a Silva l'amputazione della gamba destra. Troppo profonde le ferite e alto il rischio di cancrena, per ipotizzare una soluzione diversa. «Sto abbastanza bene, se si può essere così ottimisti da dire una cosa del genere, dopo tutto quello che mi è successo. Almeno, tornare a casa mi ha tranquillizzato. Mi hanno curato benissimo ma desideravo lasciare l'ospedale a tutti i costi per tornare dalla mia famiglia. Ora posso continuare le cure da qui». L'impatto con la realtà è stato come essere colpito una seconda volta. «Quando mi sono svegliato non ho capito subito dove fossi capitato. Ho chiesto cos'era successo e poi, abbassando lo sguardo, ho visto che mi mancava una gamba. Mi sono arrabbiato. Ho pianto molto, in verità. C'era mia sorella che tentava di spiegarmi l'accaduto ma non volevo ascoltare nessuno. Poi sono spuntati i dottori. Hanno continuato a raccontare e allora ho compreso che avevo sfiorato la morte da vicino. Ho pianto di nuovo, ero commosso di essere ancora vivo. Comprendere che l'unica cosa che contava era esserci, parlare, pensare come prima, mi ha consolato». Ha reagito Darìo, con ironia. Sollevando l'animo dei giornalisti intimiditi che lo aspettavano numerosi sulla porta dell'ospedale: «Non mi hanno tagliato la lingua, posso ancora parlare» e quello dei tifosi che si aspettavano di vederlo indossare la maglia del Penarol, col quale Silva, di ritorno dal Portsmouth, aveva intavolato un'avviatissima trattativa. «Non vi siete persi nulla, ero a fine carriera». Se il cielo non fosse crollato, Darìo sarebbe uscito di strada in un'altra maniera, con una recita d'addio piena di bandiere azzurre, quelle col sole d'Uruguay, che sventolano convinte quando a salutare è un attore così generoso. «Pensa che la sera dell'incidente, non volevo neanche uscire di casa. Speravo che col calcio finisse diversamente. Avrei voluto lasciare un sorriso, dire: sono stanco, non voglio giocare più, ho fatto tutto ciò che dovevo fare. E' finita, basta». Silenzio. «E' andata male ma non fa niente. Gli avvenimenti non puoi prevederli, si presentano da soli, senza avvertire». Nei giorni dolorosi d'inizio ottobre l'ha chiamato mezzo mondo. Maradona compreso. Darìo credeva fosse un imitatore, era Diego invece. Uno che sa riconoscere le cadute. «Non ho potuto rispondere a tutti ma lo farò presto. Ricevere tanto affetto per me è stato importante, mi ha dimostrato che avevo lasciato un ricordo significativo come persona. La cosa a cui tengo di più. La vicinanza e il calore della gente è arrivata al momento giusto. Mi ha dato forza e mi ha stupito, non pensavo che mi volessero così bene, soprattutto in Italia».
Una delle mille patrie di Silva, adottato da Cagliari per tre anni. Dal '95 al '98 segnò molti gol e incontrò amicizie sopravvissute al suo girovagare. «Sono anni che non ci metto piede ma con i sardi ho coltivato nel tempo un bellissimo rapporto». Sa Pibinca lo chiamavano, intraducibile soprannome legato alle sue strane movenze. Lui rideva senza prendersela e si faceva stampare magliette col nomignolo in evidenza, dall'eterno magazziniere comunista, Mario Manca, uno che ordinò per mezzo secolo gli scarpini di generazioni inconciliabili, da Riva a Zola. «Sarà impossibile dimenticarsi di Trapattoni, anche tra cent'anni. Mi ha insegnato il calcio italiano trattandomi come un figlio. Quando finiva l'allenamento mi obbligava a stare con lui per un'ora supplementare di palleggi, giri di campo e tiri in porta. Mi faceva fare di tutto. Al secondo mese di trattamento trapattoniano ero stremato. Un giorno, a fine seduta, mi nascondo dietro i miei compagni e vado dritto negli spogliatoi. Ce l'avevo quasi fatta, mi stavo per vestire». Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco. «A un certo punto sento la sua voce: 'Darìo?'. Gli altri erano sotto la doccia. 'Dove vai?'. 'Stavo andando a casa mister'. 'Rimettiti le scarpe, dai'. 'Per favore mister'». 60 giorni così. «Lo faceva per il mio bene. Una persona fantastica». Come l'altro finto burbero incontrato ad Assemini. «Mazzone era sublime. Aveva un'umanità speciale che non si è inquinata col passare degli anni. Nei giorni successivi al mio dramma mi ha cercato spesso, lasciandomi numerosi messaggi in segreteria. Ancora non l'ho richiamato. Lo farò presto, tra un mese e mezzo mi mandano le gambe di legno - trova la forza di sorridere - e allora potrò muovermi e andarlo a trovare». A Cagliari Silva imparò l'italiano e il sardo, àncora ineludibile, al momento di gridare in faccia agli arbitri il disappunto di un momento: «Quando non volevo farmi capire, soprattutto in Spagna e in Inghilterra, ricorrevo al dialetto. Erano parolacce, non frasi dolci. Io utilizzavo l'espediente certo che non mi scoprissero, però sapevo bene cosa gli stavo dicendo». A 34 anni, con le illusioni messe sotto il cuscino e un nuovo mestiere per incanalare le sensazioni, dovrà moderare il linguaggio. «Sono diventato giornalista sportivo». Adesso è lui a giudicare gli altri. «Ho avuto il battesimo lunedì scorso. Mi ha convinto uno dei miei amici più cari, Pato Aguilera. Mi ha rotto le scatole per giorni e giorni: 'Perché non vieni a lavorare con me?'». Darìo ha risposto sì: «Lo faccio volentieri», con lo stesso entusiasmo naif che vent'anni prima lo aveva fatto esordire nella serie A Uruguagia. «Stare lontano dal campo durante la convalescenza, mi sembra difficile quasi quanto mi appariva a 5 anni, quando pur non rientrando nel limite d'età per la mia categoria, mi impuntai facendo fare ai miei dirigenti carte false pur di giocare. Sono sempre sembrato più maturo di quanto non fossi».
Arrivò al Defensor, all'Under 20, e poi aeroplano dopo aeroplano, in Spagna, Inghilterra e Corea, per lo sfortunato mondiale 2002. «Ho visto palloni e culture lontane fra loro. Paesi diversi. L'Italia mi piaceva perché per fare bene, dovevi essere davvero bravo. C'erano pochi spazi, dovevi inventare effetti speciali per farcela. In Inghilterra, dove mi sono trovato comunque a mio agio con le persone, dominava la palla lunga: una tattica poco spettacolare, incentrata sulla forza fisica, che mi penalizzava». E in Spagna? «Bè, in Spagna c'è un culto della fantasia quasi eversivo, senza pari in nessun luogo del mondo». A Barcellona, Malaga e Siviglia, Darìo ha lasciato rimpianti e record, segnando il gol tuttora più veloce della storia della Liga, dopo appena 7 secondi. Arando il verde con la sfera incollata ai piedi. Tra i tanti che avrebbero voluto vedere ancora i suoi passi di danza, c'è suo figlio, Darìo Junior. «All'incidente non penso e non voglio pensare più, c'è una nuova vita e sono chiamato a ricominciare da zero. L'unico cruccio che mi fa veramente soffrire, è che il mio bambino avrebbe voluto partecipare con gli occhi, al mio ritorno in un campo d'Uruguay. Gliel'avevo promesso, non posso accontentarlo purtroppo. Così lo tengo buono con tutti i vhs che ho gelosamente conservato. Metto la cassetta e seguo la sua gioia». Una teoria di gol senza commento, con i cori dedicati a suo padre. «I miei figli hanno nove e tre anni, non mi hanno chiesto nulla e niente gli ho spiegato. Forse la bambina, che è più grande, qualcosa ha intuito ma il piccolo ride, inconsapevole. Urla in continuazione: 'Vieni a prendermi?. Io non posso andare». Poi, come all'epoca giusta, Darìo trova tra le marcature sentimentali, la deviazione vincente : «Sorrido anch'io e gli rispondo: 'Guarda che in un paio di mesi non mi scappi più, questo è sicuro'. Quando sarà il momento gli parlerò e vedremo cosa accadrà».
Darìo ci rifletterà attentamente. Al nuovo anno, il ballerino che aspetta su una gamba, non chiede la carità di un'altra rumba. «Mi aspetto un 2007 completamente diverso dagli ultimi dodici mesi. Ho perso mio padre poco tempo fa e poi il destino mi ha riservato questo scherzo tremendo. Ho bisogno di dimenticarlo per sempre, il 2006. A capodanno cenerò a casa mia, senza andare a trovare nessuno. Non ho un motivo serio per brindare. Voglio solamente stare da solo e pensare». Per dire quant'è grande la questione, se a un passo dall'inferno non c'è un dio che ti tenda la mano.

La bassa produttività e la pericolosa cura Wolf

Da il manifesto dell'11/11/2006

l'opinione
La bassa produttività e la pericolosa cura Wolf
Riccardo Bellofiore * e Francesco Garibaldo**

Nel dibattito sulla situazione economica italiana Michele Salvati (Corriere della Sera, 25 settembre) ha formulato un'obiezione, seria, alle posizioni della sinistra radicale, cui si deve dare risposta. Né la finanza pubblica né il Patto di stabilità sono il vero problema, lo sono la competitività che si deteriora e la produttività decrescente. La contrazione fiscale non ci è perciò imposta dall'esterno. Va assunta di buon grado per imporre, non il risanamento finanziario in sé e per sé, ma la bonifica della struttura economica reale del paese e uno snellimento del settore pubblico in nome dell'efficienza. Da questo punto di vista, limitarsi a richiedere una Finanziaria meno restrittiva e lasciare nel vago in cosa consisterebbero una diversa politica industriale e una diversa politica di sviluppo renderebbe poco credibile la sinistra radicale. Un mese dopo Martin Wolf sul Financial Times (25 ottobre) formula una diagnosi complementare, in larga misura condivisibile. Non è il costo del lavoro il problema, ma appunto la bassa produttività. La più bassa inflazione consente alla Germania una deflazione competitiva che perpetua il modello neomercantilista che ci vede perdenti. In termini reali le esportazioni italiane di beni e servizi ristagnano dal 2000, e il disavanzo con l'estero si incancrenisce. La bassa capacità di esportazione si accompagna a un livello ridotto di partecipazione al mercato del lavoro, come a un profilo di specializzazione internazionale dell'Italia medio-basso in termini di tecnologia, vulnerabile alla concorrenza dei paesi asiatici. Wolf segnala pure da tempo il rischio a medio termine di un aumento dei tassi di interesse a lunga per le possibili tensioni future, soprattutto tra Usa e Cina, sul finanziamento del doppio disavanzo americano. I tassi europei, e con loro lo spread tra quelli italiani e altri paesi europei, salirebbero: qualcosa che impone cautela sui conti pubblici.
La cura di Wolf è singolare ma intelligente, al di là delle apparenze. Non solo tagli di spesa, ma spingere a lavorare di più gli italiani ovunque, aumentando così il Pil; licenziamenti e innovazioni di prodotto per alzare la produttività nei settori per l'esportazione. Wolf non trascura il problema della domanda effettiva. La risposta è omogenea al modello anglosassone cui si sta adeguando, a suo modo, l'Europa continentale: spingere le famiglie a indebitarsi in modo comparabile con i paesi europei e il resto del mondo - dal 1995 a oggi le famiglie italiane hanno già quasi raddoppiato il loro indebitamento. La logica è trasparente. Mantenere il lavoratore «spaventato», comprimendo il salario e frammentando il lavoro. Tramite il continuo allarmismo sulle pensioni (il risparmiatore «terrorizzato») risucchiare nei fondi pensione il Tfr, e costringere a un maggiore e più lungo tempo di lavoro sociale. Sostenere infine la realizzazione monetaria del profitto dal lato del consumatore «indebitato», che il lavoro deve accettarlo così com'è. Sono argomenti seri e processi pericolosi, del tutto in linea con la via «alta» alla produttività del «nuovo» capitalismo e la sua politica monetaria di complemento, ammorbiditi magari con sussidi al reddito. Vorremmo suggerire un inizio di risposta che non si fermi al pur necessario contro-argomento macroeconomico, ma consideri anche le dinamiche strutturali, e dia qualche esempio di politica industriale come parte di una risposta alternativa di politica economica.
Siamo in presenza di una inaudita centralizzazione del capitale, mediata da una finanziarizzazione esasperata. Non vi si accompagna una crescente concentrazione in unità produttive più grandi di masse di lavoratori omogenei: semmai una riduzione dell'unità tecnica di produzione e una destrutturazione del lavoro. L'accresciuta concorrenza «globale» innesca ovunque una trasformazione generale. Anche l'Italia vive una situazione di crisi, ristrutturazione e riposizionamento dell'industria italiana, con perdenti e vincenti: ma anche i vincenti sono in posizione subordinata nella filiera produttiva integrata. L'azienda «focale» della filiera concentra l'essenziale del know-how e del controllo strategico del processo, e scarica gli oneri delle restanti parti del processo produttivo su altre aziende. Il mercato del lavoro si segmenta di conseguenza quanto a tutele, salari, formazione, e così via. A un certo punto scatta una soluzione di continuità tra insider e outsider, in una generale incertezza che colpisce tutti. Per questo anche, in Europa, il contratto nazionale è sotto attacco. Processi analoghi investono tutte le attività economiche e il settore pubblico.
Se la precarizzazione del lavoro non è medicina universale, anzi le imprese più significative vi fanno modesto ricorso, è però componente importante di tutti i cicli produttivi. Dal punto di vista macrosociale, avanzamento tecnologico e precarizzazione del lavoro (nativo e migrante) sono facce della stessa medaglia.
All'Italia, in particolare, manca un centro strategico e egemonico. In nessun settore, vecchio o nuovo, ha una leadership europea. Non solo per il prevalere di aziende piccole e piccolissime, ma anche per l'assenza di grandi aziende nazionali fortemente internazionalizzate. La grande industria, le concentrazioni bancarie, le strutture chiave della distribuzione commerciale, alcune grandi aziende fornitrici di servizi di pubblica utilità vengono ridimensionate e acquisite da grandi gruppi globali. La parte più avanzata del Nord e del Centro sta diventando risorsa manifatturiera specializzata di servizio per grandi imprese tedesche e francesi. Ovunque gli interessi si sfarinano e le coalizioni sociali si frammentano, con derive regressive.
Una via di uscita passa per una nuova politica industriale, che riequilibri le esportazioni di prodotti tradizionali, e dia vita a un'innovazione profonda della gamma di prodotti. Ma, contro Wolf e Salvati, ciò richiede: 1. un grande impegno finanziario di chi solo lo può garantire come stabile e credibile, lo Stato; 2. un impulso massiccio, deciso e concentrato nel tempo, come richiede ogni intervento che voglia cambiare una traiettoria iscritta nel passato; 3. l'accortezza di sfruttare ora quella finestra di stabilità dei tassi di interesse che non è garantita a medio termine, per l'incerto quadro globale; 4. di individuare le grandi domande inevase della società italiana e europea, qualcosa che solo la politica e la società possono individuare con un'ottica di lungo termine; 5. di definire risposte adeguate che il mercato da solo non è in grado di vedere, per la sua costitutiva miopia; 6. di partire dai punti dove massima e virtuosa può essere l'interconnessione tra questioni economiche, ecologiche, sociali.
Ci limiteremo a un cenno solo sulla questione emblematica della mobilità sostenibile: dai nuovi motori, alla gestione via Ict del traffico nei grandi centri metropolitani, sino alla costruzione di nuovi mezzi di mobilità urbana. Riorientare una parte della capacità produttiva esistente e non utilizzata verso la risoluzione di questo problema è una politica industriale che richiede forte integrazione tra politiche pubbliche nazionali e a scala europea, come anche l'iniziativa privata delle imprese. Ma ragionamenti analoghi si possono sviluppare per l'energia, per l'acqua, per l'istruzione, etc.: cioè per una serie di beni/servizi di natura pubblica o semipubblica che possono diventare il quadro di riferimento di una nuova classe di prodotti/servizi. In questa logica, il lavoro non può costitutivamente essere precario e mal pagato.
Il nostro è un suggerimento, ribadiamo, iniziale, va certamente affinato. E' però, ne siamo convinti, solo prendendo questa strada, e mettendo in campo una nuova capacità di conflitto sociale autonomo, che la sinistra radicale potrà evitare di limitarsi a mettere le note a fondo pagina di politiche social-liberiste.

* ordinario facoltà di Economia
Università degli studi di Bergamo
Riccardo Bellofiore * e Francesco Garibaldo** ** presidente della Fondazione
Istituto per il lavoro, Bologna

Pubblica incoscienza

da il manifesto dell'11/11/2006
di Marcello Cini


Pubblica incoscienza


«Nella vecchia economia la gente comprava e vendeva risorse congelate, cioè un mucchio di materiale tenuto insieme da un pochino di sapere. Nella nuova economia, compriamo e vendiamo sapere congelato, cioè un sacco di contenuto intellettuale in un involucro fisico». Così Brian Arthur, uno dei fondatori del celebre Istituto di ricerca di Santa Fé sulla complessità che caratterizza la svolta dell'economia dal XX al XXI secolo. E l'editor della rivista economica americana Fortune, Thomas Stewart spiega: «In questa nuova era, la ricchezza è il prodotto del sapere. Sapere e informazione - e non soltanto sapere scientifico, ma le notizie, i consigli, l'intrattenimento, i servizi - sono diventati le principali materie prime dell'economia e i suoi prodotti più importanti. Il sapere è quel che compriamo e vendiamo».
Chi mi conosce sa che non mi piace che la conoscenza in generale e la scienza in particolare siano diventate merci che si comprano e si vendono, e che la loro produzione sia sempre più subordinata al vincolo della produzione del maggiore e più immediato profitto possibile del capitale investito. Penso che la conoscenza e la scienza - in quanto beni che, al contrario degli oggetti materiali, non si «consumano» ma si moltiplicano tanto più quanto maggiore è il numero di coloro che possono fruirne - dovrebbero ritornare a essere beni comuni disponibili a tutti.
Ma anche se questo obiettivo può sembrare utopistico - ma forse non lo è pensando alle catastrofi che si annunciano se il mercato continua a essere l'unico riferimento - la necessità di una forte ricerca pubblica, che persegua finalità collettive dovrebbe essere un'assoluta priorità per un governo che pensa al futuro dei suoi cittadini.
Dovrebbe essere ovvio che se la conoscenza e la scienza non vengono prodotte, o se bisogna comprare a caro prezzo sul mercato quelle prodotte dalle multinazionali, il nostro paese non entra nel XXI secolo, ma retrocede al XX se non al XIX. Non è una battuta. Un piccolo esempio storico ci deve far pensare. Basta ricordare che la Cina, dove nel Medioevo erano state inventate la ghisa, la bussola, la polvere da sparo, la carta, la stampa e tante altre cose nel giro di un decennio perse per cinquecento anni la supremazia tecnologica che aveva accumulato. «Perché le sue formidabili navi - si domanda Jared Diamond nel libro Armi, acciaio e malattie - non doppiarono il Capo di Buona Speranza, prima che Vasco de Gama lo doppiasse in senso inverso? Perché non attraversarono il Pacifico arrivando in America prima di Colombo? Cosa fece perdere alla Cina la supremazia tecnologica?». La risposta è banale e dimostra quanto possano essere catastrofiche le conseguenze di perturbazioni locali imprevedibili e apparentemente irrilevanti. Fu semplicemente la vittoria nella lotta per il potere della fazione avversa a quella responsabile della marina a bloccare le spedizioni marittime, smantellare la flotta e proibire la navigazione transoceanica. Una valanga che travolse tutto.
Tagliare 300 milioni su un totale di 1.630 - questo sembra essere l'ammontare della riduzione del finanziamento pubblico per la ricerca scientifica e tecnologica prevista dalla finanziaria - non è un sacrificio paragonabile a quello che anche altri settori della spesa pubblica devono sopportare per mettere in ordine i conti pubblici. E' soltanto incoscienza.