domenica, novembre 12, 2006

I sogni interrotti di «Sa Pibinca»

Un carinissimo articolo su Dario Silva, pubblicato su il manifesto dell'11/11/2006


I sogni interrotti di «Sa Pibinca»


Un incidente d'auto ha chiuso la carriera dell'ex attaccante del Cagliari Darìo Silva. Dal dialetto sardo alle lezioni del Trap, la rinascita allegra e testarda di un ballerino uruguagio che ha girato il mondo inseguendo il gol

Malcom Pagani

Non che una servisse più dell'altra. Erano entrambe necessarie. Darìo Silva faceva correre le gambe più veloci del pensiero. Partiva da solo, non sempre arrivava. Dall'alto di una tribuna o dal basso di una curva, era difficile non accorgersi di lui. Gol meravigliosi ed orrori sotto porta, capelli afro color platino e una totale interazione col pubblico. Il sorriso pieno di chi ha realizzato un sogno: «Mio padre faceva il giardiniere del campo da calcio della città in cui sono nato». A Trenta y Tres il tempo libero bisognava inventarselo. «Papà tagliava l'erba e io ne approfittavo per mettere in scena uno spettacolo. Non c'erano avversari, mi portavo un pallone e calciavo per ore. Per me giocare non è mai stato un lavoro. Soltanto una bellissima avventura, come la vita stessa. Non ho mai pensato che avrei dovuto guadagnare soldi per trovare il mio posto nel mondo e guardavo allo sport come puro divertimento. Anche dopo una sconfitta la rabbia durava lo spazio di un secondo. Possedevo un'allegria diversa dai miei compagni, gliele leggevo in faccia le preoccupazioni. Non le ho mai capite».
Darìo adesso è fermo. La luce si è spenta quando la sua Jeep ha abbattuto un palo dell'energia elettrica sul lungomare di Montevideo. Era l'alba del 24 settembre. A Elbio Pappa e Dardo Pereira, i due calciatori che erano con lui, è toccata qualche escoriazione, a Silva l'amputazione della gamba destra. Troppo profonde le ferite e alto il rischio di cancrena, per ipotizzare una soluzione diversa. «Sto abbastanza bene, se si può essere così ottimisti da dire una cosa del genere, dopo tutto quello che mi è successo. Almeno, tornare a casa mi ha tranquillizzato. Mi hanno curato benissimo ma desideravo lasciare l'ospedale a tutti i costi per tornare dalla mia famiglia. Ora posso continuare le cure da qui». L'impatto con la realtà è stato come essere colpito una seconda volta. «Quando mi sono svegliato non ho capito subito dove fossi capitato. Ho chiesto cos'era successo e poi, abbassando lo sguardo, ho visto che mi mancava una gamba. Mi sono arrabbiato. Ho pianto molto, in verità. C'era mia sorella che tentava di spiegarmi l'accaduto ma non volevo ascoltare nessuno. Poi sono spuntati i dottori. Hanno continuato a raccontare e allora ho compreso che avevo sfiorato la morte da vicino. Ho pianto di nuovo, ero commosso di essere ancora vivo. Comprendere che l'unica cosa che contava era esserci, parlare, pensare come prima, mi ha consolato». Ha reagito Darìo, con ironia. Sollevando l'animo dei giornalisti intimiditi che lo aspettavano numerosi sulla porta dell'ospedale: «Non mi hanno tagliato la lingua, posso ancora parlare» e quello dei tifosi che si aspettavano di vederlo indossare la maglia del Penarol, col quale Silva, di ritorno dal Portsmouth, aveva intavolato un'avviatissima trattativa. «Non vi siete persi nulla, ero a fine carriera». Se il cielo non fosse crollato, Darìo sarebbe uscito di strada in un'altra maniera, con una recita d'addio piena di bandiere azzurre, quelle col sole d'Uruguay, che sventolano convinte quando a salutare è un attore così generoso. «Pensa che la sera dell'incidente, non volevo neanche uscire di casa. Speravo che col calcio finisse diversamente. Avrei voluto lasciare un sorriso, dire: sono stanco, non voglio giocare più, ho fatto tutto ciò che dovevo fare. E' finita, basta». Silenzio. «E' andata male ma non fa niente. Gli avvenimenti non puoi prevederli, si presentano da soli, senza avvertire». Nei giorni dolorosi d'inizio ottobre l'ha chiamato mezzo mondo. Maradona compreso. Darìo credeva fosse un imitatore, era Diego invece. Uno che sa riconoscere le cadute. «Non ho potuto rispondere a tutti ma lo farò presto. Ricevere tanto affetto per me è stato importante, mi ha dimostrato che avevo lasciato un ricordo significativo come persona. La cosa a cui tengo di più. La vicinanza e il calore della gente è arrivata al momento giusto. Mi ha dato forza e mi ha stupito, non pensavo che mi volessero così bene, soprattutto in Italia».
Una delle mille patrie di Silva, adottato da Cagliari per tre anni. Dal '95 al '98 segnò molti gol e incontrò amicizie sopravvissute al suo girovagare. «Sono anni che non ci metto piede ma con i sardi ho coltivato nel tempo un bellissimo rapporto». Sa Pibinca lo chiamavano, intraducibile soprannome legato alle sue strane movenze. Lui rideva senza prendersela e si faceva stampare magliette col nomignolo in evidenza, dall'eterno magazziniere comunista, Mario Manca, uno che ordinò per mezzo secolo gli scarpini di generazioni inconciliabili, da Riva a Zola. «Sarà impossibile dimenticarsi di Trapattoni, anche tra cent'anni. Mi ha insegnato il calcio italiano trattandomi come un figlio. Quando finiva l'allenamento mi obbligava a stare con lui per un'ora supplementare di palleggi, giri di campo e tiri in porta. Mi faceva fare di tutto. Al secondo mese di trattamento trapattoniano ero stremato. Un giorno, a fine seduta, mi nascondo dietro i miei compagni e vado dritto negli spogliatoi. Ce l'avevo quasi fatta, mi stavo per vestire». Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco. «A un certo punto sento la sua voce: 'Darìo?'. Gli altri erano sotto la doccia. 'Dove vai?'. 'Stavo andando a casa mister'. 'Rimettiti le scarpe, dai'. 'Per favore mister'». 60 giorni così. «Lo faceva per il mio bene. Una persona fantastica». Come l'altro finto burbero incontrato ad Assemini. «Mazzone era sublime. Aveva un'umanità speciale che non si è inquinata col passare degli anni. Nei giorni successivi al mio dramma mi ha cercato spesso, lasciandomi numerosi messaggi in segreteria. Ancora non l'ho richiamato. Lo farò presto, tra un mese e mezzo mi mandano le gambe di legno - trova la forza di sorridere - e allora potrò muovermi e andarlo a trovare». A Cagliari Silva imparò l'italiano e il sardo, àncora ineludibile, al momento di gridare in faccia agli arbitri il disappunto di un momento: «Quando non volevo farmi capire, soprattutto in Spagna e in Inghilterra, ricorrevo al dialetto. Erano parolacce, non frasi dolci. Io utilizzavo l'espediente certo che non mi scoprissero, però sapevo bene cosa gli stavo dicendo». A 34 anni, con le illusioni messe sotto il cuscino e un nuovo mestiere per incanalare le sensazioni, dovrà moderare il linguaggio. «Sono diventato giornalista sportivo». Adesso è lui a giudicare gli altri. «Ho avuto il battesimo lunedì scorso. Mi ha convinto uno dei miei amici più cari, Pato Aguilera. Mi ha rotto le scatole per giorni e giorni: 'Perché non vieni a lavorare con me?'». Darìo ha risposto sì: «Lo faccio volentieri», con lo stesso entusiasmo naif che vent'anni prima lo aveva fatto esordire nella serie A Uruguagia. «Stare lontano dal campo durante la convalescenza, mi sembra difficile quasi quanto mi appariva a 5 anni, quando pur non rientrando nel limite d'età per la mia categoria, mi impuntai facendo fare ai miei dirigenti carte false pur di giocare. Sono sempre sembrato più maturo di quanto non fossi».
Arrivò al Defensor, all'Under 20, e poi aeroplano dopo aeroplano, in Spagna, Inghilterra e Corea, per lo sfortunato mondiale 2002. «Ho visto palloni e culture lontane fra loro. Paesi diversi. L'Italia mi piaceva perché per fare bene, dovevi essere davvero bravo. C'erano pochi spazi, dovevi inventare effetti speciali per farcela. In Inghilterra, dove mi sono trovato comunque a mio agio con le persone, dominava la palla lunga: una tattica poco spettacolare, incentrata sulla forza fisica, che mi penalizzava». E in Spagna? «Bè, in Spagna c'è un culto della fantasia quasi eversivo, senza pari in nessun luogo del mondo». A Barcellona, Malaga e Siviglia, Darìo ha lasciato rimpianti e record, segnando il gol tuttora più veloce della storia della Liga, dopo appena 7 secondi. Arando il verde con la sfera incollata ai piedi. Tra i tanti che avrebbero voluto vedere ancora i suoi passi di danza, c'è suo figlio, Darìo Junior. «All'incidente non penso e non voglio pensare più, c'è una nuova vita e sono chiamato a ricominciare da zero. L'unico cruccio che mi fa veramente soffrire, è che il mio bambino avrebbe voluto partecipare con gli occhi, al mio ritorno in un campo d'Uruguay. Gliel'avevo promesso, non posso accontentarlo purtroppo. Così lo tengo buono con tutti i vhs che ho gelosamente conservato. Metto la cassetta e seguo la sua gioia». Una teoria di gol senza commento, con i cori dedicati a suo padre. «I miei figli hanno nove e tre anni, non mi hanno chiesto nulla e niente gli ho spiegato. Forse la bambina, che è più grande, qualcosa ha intuito ma il piccolo ride, inconsapevole. Urla in continuazione: 'Vieni a prendermi?. Io non posso andare». Poi, come all'epoca giusta, Darìo trova tra le marcature sentimentali, la deviazione vincente : «Sorrido anch'io e gli rispondo: 'Guarda che in un paio di mesi non mi scappi più, questo è sicuro'. Quando sarà il momento gli parlerò e vedremo cosa accadrà».
Darìo ci rifletterà attentamente. Al nuovo anno, il ballerino che aspetta su una gamba, non chiede la carità di un'altra rumba. «Mi aspetto un 2007 completamente diverso dagli ultimi dodici mesi. Ho perso mio padre poco tempo fa e poi il destino mi ha riservato questo scherzo tremendo. Ho bisogno di dimenticarlo per sempre, il 2006. A capodanno cenerò a casa mia, senza andare a trovare nessuno. Non ho un motivo serio per brindare. Voglio solamente stare da solo e pensare». Per dire quant'è grande la questione, se a un passo dall'inferno non c'è un dio che ti tenda la mano.

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