domenica, novembre 12, 2006

Pubblica incoscienza

da il manifesto dell'11/11/2006
di Marcello Cini


Pubblica incoscienza


«Nella vecchia economia la gente comprava e vendeva risorse congelate, cioè un mucchio di materiale tenuto insieme da un pochino di sapere. Nella nuova economia, compriamo e vendiamo sapere congelato, cioè un sacco di contenuto intellettuale in un involucro fisico». Così Brian Arthur, uno dei fondatori del celebre Istituto di ricerca di Santa Fé sulla complessità che caratterizza la svolta dell'economia dal XX al XXI secolo. E l'editor della rivista economica americana Fortune, Thomas Stewart spiega: «In questa nuova era, la ricchezza è il prodotto del sapere. Sapere e informazione - e non soltanto sapere scientifico, ma le notizie, i consigli, l'intrattenimento, i servizi - sono diventati le principali materie prime dell'economia e i suoi prodotti più importanti. Il sapere è quel che compriamo e vendiamo».
Chi mi conosce sa che non mi piace che la conoscenza in generale e la scienza in particolare siano diventate merci che si comprano e si vendono, e che la loro produzione sia sempre più subordinata al vincolo della produzione del maggiore e più immediato profitto possibile del capitale investito. Penso che la conoscenza e la scienza - in quanto beni che, al contrario degli oggetti materiali, non si «consumano» ma si moltiplicano tanto più quanto maggiore è il numero di coloro che possono fruirne - dovrebbero ritornare a essere beni comuni disponibili a tutti.
Ma anche se questo obiettivo può sembrare utopistico - ma forse non lo è pensando alle catastrofi che si annunciano se il mercato continua a essere l'unico riferimento - la necessità di una forte ricerca pubblica, che persegua finalità collettive dovrebbe essere un'assoluta priorità per un governo che pensa al futuro dei suoi cittadini.
Dovrebbe essere ovvio che se la conoscenza e la scienza non vengono prodotte, o se bisogna comprare a caro prezzo sul mercato quelle prodotte dalle multinazionali, il nostro paese non entra nel XXI secolo, ma retrocede al XX se non al XIX. Non è una battuta. Un piccolo esempio storico ci deve far pensare. Basta ricordare che la Cina, dove nel Medioevo erano state inventate la ghisa, la bussola, la polvere da sparo, la carta, la stampa e tante altre cose nel giro di un decennio perse per cinquecento anni la supremazia tecnologica che aveva accumulato. «Perché le sue formidabili navi - si domanda Jared Diamond nel libro Armi, acciaio e malattie - non doppiarono il Capo di Buona Speranza, prima che Vasco de Gama lo doppiasse in senso inverso? Perché non attraversarono il Pacifico arrivando in America prima di Colombo? Cosa fece perdere alla Cina la supremazia tecnologica?». La risposta è banale e dimostra quanto possano essere catastrofiche le conseguenze di perturbazioni locali imprevedibili e apparentemente irrilevanti. Fu semplicemente la vittoria nella lotta per il potere della fazione avversa a quella responsabile della marina a bloccare le spedizioni marittime, smantellare la flotta e proibire la navigazione transoceanica. Una valanga che travolse tutto.
Tagliare 300 milioni su un totale di 1.630 - questo sembra essere l'ammontare della riduzione del finanziamento pubblico per la ricerca scientifica e tecnologica prevista dalla finanziaria - non è un sacrificio paragonabile a quello che anche altri settori della spesa pubblica devono sopportare per mettere in ordine i conti pubblici. E' soltanto incoscienza.

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