sabato, luglio 26, 2008

La nebbia



Elvira, dammi la mano. Hai paura? No, ma non riesco a vedere la strada. Mi sono persa anche io, Amalia...la nebbia.
Mi capita, a volte, di girare intorno al campanile e credere di essere arrivata da te. Ma non ci sono.
Compaiono volti improvvisi, scavati dall'umidità di queste albe autunnali. Chi sei?
Vincenza, sei tu?

Maria, torna indietro. Non cercare noi che stiamo tra le nebbie del ricordo.

Le vecchie, con le loro vestaglie di fumo, si confusero nuovamente nella brughiera nebbiosa e Maria tornò in città.

Quella sera la nebbia avvolgeva la città. Si era mangiata famelica i contorni delle cose: lampioni, asfalto, finestre, portoni, negozi, insegne, cortili, alberi, panchine, sedie, piazze, tram. Fino a quando tutto scomparve e rimasero solo ombre vaporose alla ricerca come di un legame a doppio filo con la realtà, ma senza speranza di recupero, ormai. Chiunque avesse osato sfidare quella cortina densa e mutante – eppure fissa – avrebbe potuto incontrare i fantasmi della propria coscienza, smascherare la solitudine e fare emergere le smorfie dei sogni; perché la nebbia è la messaggera degli dei, che la usano per celarsi e riapparire per un attimo nei suoi vortici confusi e umidi, a fare da specchio alle inquietudini umane. Nel silenzio quasi notturno, apparvero dei passi. “Elvira, sei tu? Ma dov’eri? Entra che prendi freddo.” In casa, la caffettiera borbottava per la cena. Amalia usava bere il caffellatte, e ne offrì una scodella fumante a Elvira. Sapeva come calmare la sorella. Bastava assecondare le onde della sua delusione e della rabbia: muovere la testa per assentire, intercalare con qualche “eh, sì” “è vero” “hai ragione” “oh, è proprio così”. E una tazza di caffellatte. Davanti alla quale, certe volte, passavano lunghi minuti a contemplare in silenzio prima le spire di fumo che salivano verso la credenza e poi la panna che si rapprendeva sulla superficie, come l’inverno che indurisce i laghi, tra i vapori ghiacciati. Amalia proteggeva quella sorella maggiore che usciva spesso e girava per la città alla ricerca dei genitori, della sua casa, dei bambini piccoli da accudire; rispettava la sua fissazione, l’accettava perché le disgrazie non lo sono mai completamente e perché sperava comunque in una compensazione dei sacrifici fatti per Elvira. Se non in questa vita, agli scampoli, nell’altra. In qualche momento le capitava di chiedersi chi tra le due avesse ceduto alle intemperie dell’esistenza, e se le cose avrebbero potuto andare diversamente se la guerra non fosse arrivata a creare macerie. Quante macerie. Le nubi di polvere grigia, quella delle case che cadevano senza un lamento, a febbraio e maggio, che toglievano il respiro e bruciavano gli occhi, erano sorelle della nebbia di quella sera, ma più tristi perché nascondevano corpi veri e spezzati. Bombardamenti. Spezzonamenti. Qualcuno le aveva spiegato la differenza ma adesso non era importante. Adesso, e da quanti anni, c’era Elvira da accudire, quella ottantacinquenne che aveva messo tra parentesi oltre quaranta anni di vita. Cancellati, mandati in fumo, come quello del caffellatte davanti ai loro volti. “Lasciami andare. Devo tornare a casa mia.” Elvira l’accusava di sfruttarla, di trattenerla per rammendare e cucire, il suo mestiere. “Tu non mi sopporti” diceva. E in parte, in qualche angolo del cervello di Amalia, era vero, ma non per quello che diceva la sorella, no. Per lei che non aveva seppellito la verità, quel ricordo continuamente mozzato, quello iato dell’esistenza comune, erano una lama tagliente nel cuore; così come la sua incapacità a fermarla, a bloccarla, a far rinsavire Elvira. Sì, le capitava di non sopportare, ma con quali sensi di colpa, quante lacrime. E poi. E poi, altre volte, il martellamento continuo di bugie faceva vacillare la verità. I genitori e i fratelli potevano non essere morti sotto le bombe del ‘43; magari i piccoli ancora vagavano, adulti senza memoria, di ospedale in ospedale. Era possibile? “Sì, si. Vedrai che ci torni, a casa. Ma adesso bevi e stiamo un po’ al calduccio, qui.” Spesso, durante i lunghi inverni bui, Elvira sfilava dalla tasca del grembiale gli occhiali per vicino e un ritaglio di giornale, ingiallito e mangiucchiato. Leggeva sottovoce un elenco di nomi, di strade, di monumenti, il cordoglio della municipalità, le scuse degli inglesi fatte in italiano, il dolore dei parenti. Leggeva con eleganza e con distacco, usando l’impostazione delle grandi occasioni, ma quasi in silenzio, e soprattutto evitando di pronunciare i nomi delle persone care. Quelli li saltava. Chissà se consciamente. Amalia riprese a sorseggiare la sua cena garbata, la terminò e andò a sciacquare la scodella nel lavandino di granito. “Ecco l’elenco delle vittime del bombardamento”. Elvira lesse di nuovo i nomi. E provò la solita stretta al cuore. Ancora aveva il senno di pensare che il dolore non è una parola che si può leggere sul giornale. In quei momenti lei lo assaporava e sapeva – senza saperlo - cosa fosse, anche se non capiva da dove provenisse, né il motivo. Credeva di non conoscere nessuna delle vittime e i luoghi bombardati. Amalia sorrideva, premurosa. Si avvicinò alla sorella e con dolcezza le chiese di andare a letto. "Non ancora, Amalia. Restiamo ancora un momento" rispose Elvira. Era instancabile, e avrebbe potuto camminare altri chilometri prima di dichiararsi vinta. "Non l'hai buttato ancora quel ritaglio dell'Unione?" Elvira ricambiò il sorriso alla sorella. “Amalia, vai a prendere la gonna, che così finisco l’orlo.” Amalia salì le scale che dall’andito portavano alla camera da letto, l’unica al piano di sopra, condivisa nell’immediato dopoguerra da tutte le quattro sorelle rientrate dallo sfollamento, aprì il cassettone del comò chippendale e prima di prendere la gonna si incantò sul portagioie in legno e ottone dentro cui riposavano le fotografie dei genitori, delle sorelle e degli altri parenti immortalati dalla Argus dello zio. Ma dove era finita quella macchina fotografica? Non l’aveva più trovata. A dire il vero non l’aveva neppure cercata: solo ora si era ricordata della marca. Argus. Una ventata di ricordi arrivò. Che era? Nel servizio a fianco la finestrella era chiusa e il vetro rotto a mo’ di triangolo scaleno non giustificava quella corrente d’aria. Ridiscese le scale con la velocità consentita dalle sue settantanove primavere. La porta d’ingresso era spalancata e la nebbia stava conquistando terreno: le sue bandiere sventolavano sulla credenza liberty, sui fornelli del cucinino, sul tavolo in formica, sul lavandino in granito e sul concone per il bagno dei bambini, unica eredità della vecchia casa. Se avesse tardato a richiudere, tutto sarebbe sparito sotto quel manto biancastro. Si lasciò andare sulla sedia impagliata e chiamò a voce alta “Elvira.” Considerò che con quel tempo da lupi lì fuori, non fosse il caso di aspettare troppo. Decise allora di uscire subito; si mise il paltò - che aspettava, non da troppo, arrampicato sull’attaccapanni – e andò in cerca della sorella. La nebbia non l’avrebbe confusa, sapeva esattamente dove andare. Ma quella sera, forse diventata notte, la bruma era spessa e densa; a ogni passo sentiva di allontanarsi dalle mura di casa e di perdersi nei vicoli della città. E ogni passo era come se lo posasse sulla neve, fredda, dura e avvolgente, che le nascondeva le scarpe: era uscita scalza. Dio mio, col paltò e scalza. Sorrise pensando alla faccia della sorella quando l’avrebbe ritrovata e insieme avrebbero commentato, con quel senso amaramente ironico che le contraddistingueva. Quando la bomba colpì la casa, Amalia era vicino al porto, in preda al panico. Aveva visto gli aerei venire da sud, ingrandirsi, assordare con il boato dei motori, e poi le luci, le esplosioni, le urla, le corse, le navi incendiate, la contraerea che rispondeva in ritardo, quando già l’inferno era concluso. O era solo l’inizio? Quasi da subito il fumo e la polvere tentarono di nascondere la realtà. Appena giunta davanti alla casa, metà era sparita nella polvere. E come la loro, erano sprofondate quasi tutte le case di via Siotto Pintor e via Sant’Efisio. Cosa volevano colpire quei criminali? Quali nemici avevano intravisto tra i vicoli dei falegnami e delle botteghe dei vinai, nelle casupole dei pescatori o in quelle dei carpentieri? Glielo avessero chiesto, li avrebbe fatti entrare in casa, gli inglesi, e li avrebbe invitati a pranzo e gli avrebbe fatto vedere che lì non c’erano persone pericolose. Uno sbaglio, si scusarono più tardi. Elvira arrivò subito dopo e cominciò a scavare accanto a una squadra di soccorso. Usava le mani e i gomiti e gridava continuamente i nomi conosciuti. Ma poi era passato tutto. Avevano lavorato sodo e si erano rimesse in piedi. Tutto bene. Tranne dentro Elvira, le cui arterie lavoravano alacremente per restituirle una specie di oblio della malinconia. Ma ora doveva trovarla. C’era riuscita sempre e anche quella sera ce l’avrebbe fatta. La sentiva già a pochi metri da sé, con quel suo passo strascicato e svelto. Udiva la sua voce domandare ai fantasmi incontrati “Mi può indicare dove abitano i miei genitori?” “Più avanti, signora. Un poco più in là.” Amalia credeva di essersi diretta verso il centro, invece era vicina agli stagni. Sentiva l’odore delle nasse e della nafta. E il guizzo lento di qualche anguilla sul pelo dell’acqua. Le parve anche di vedere qualche viso avanzare nella nebbia. Volti sconosciuti che sembrava volessero indicarle la via e che subito si rituffavano nell’oscurità, rischiarata dalla luce dei pochi lampioni e dal biancore riflettente della bruma. Ebbe la sensazione che Elvira fosse da tutt’altra parte e che ad aver sbagliato strada fosse solo lei, attratta da false piste e forse dalla voglia di perdersi una volta per tutte, di farla finita con quella ricerca continua, con quella sorella svanita, con quei ricordi ossessionanti che nel bene e nel male le avevano condizionato l’esistenza. Anni buttati. Anni di guerra continua. Ma che diamine stava pensando. Maledetta la nebbia e i dubbi che insinua. Sì, l’avrebbe ritrovata comunque, la sorella amata. Insieme sarebbero tornate a casa, al calduccio, e avrebbero sfogliato le fotografie in bianco e nero dei loro cari.

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