domenica, maggio 06, 2012

Galaxy SIII la belva




Samsung gioca la carta Galaxy SIII
Presentato il nuovo super-telefono Android che uscirà a fine maggio. Quad-core imbottito di funzioni smart. Prezzi a partire da 699 euro
Clicca qui per la gallery con le prime immagini del nuovo Samsung Galaxy SIII

Roma - Dal 29 maggio Samsung inizierà a vendere nei negozi europei il nuovo Galaxy SIII, uno degli smartphone più attesi dell'anno. Il device al vertice della gamma, appena presentato a Londra, è equipaggiato con sistema Android Ice Cream Sandwich (4.0), processore quad-core e una manciata di utility "originali", pensate per aiutare l'utente nell'utilizzo quotidiano e distinguersi sugli scaffali. Il nuovo prodotto dell'azienda coreana andrà infatti a confrontarsi con iPhone 5, in arrivo durante l'estate.

domenica, maggio 16, 2010

Le due destre e i nostri desideri

La destra italiana è divisa. Da una parte quella che rappresenta il “peggior spirito di Romagna”, buttatasi in politica per gestire direttamente affari leciti e meno leciti, rappresentante e parte di quella Italia dell’egoismo fiscale e dell’evasione legalizzata. forse persino garante dei poteri mafiosi; dall’altra la destra di chi ha capito che rischia parecchio a stare ancora troppo attaccata a questi loschi figuri. E’ una divisione che nel PDL è sempre esistita – tanto che Berlusconi non riesce a governare nonostante la netta maggioranza parlamentare -, ma che da qualche tempo è uscita allo scoperto, quasi ad anticipare le inchieste giudiziarie che stanno travolgendo molti personaggi illustri.

Platone dimezzato

Magari Calvino si è basato sul Simposio di Platone, per creare Medardo (il buono e il cattivo, e ogni riferimento a Sergio Leone è puramente casuale).

Il filosofo scrive:

“Un giorno Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due. Da allora ciascuno di noi è il simbolo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente. [...] In seguito, per curare l’antica ferita, Zeus, dopo averla inflitta, inviò Amore, fra gli dèi l’amico degli uomini, il medico, colui che riconduce all’antica condizione. Cercando di far uno ciò che è due, Amore cerca di medicare l’umana natura.”

Quindi la condizione della nostra esistenza è la scissione che si ricompone attraverso l’amore. L’amore che unisce e che insieme alla parola restituisce il senso della nostra esistenza.

Cioè soffriamo perchè esistiamo, e abbiamo solo bisogno di relazioni di qualità e di tempo per ascoltarci, se vogliamo superare questo status.

Offuscare la sofferenza con droghe o farmaci serve forse a farci rientrare nei ranghi e nella norma che altri hanno stabilito per noi, ma non a renderci più felici, o più umani. E i medici della mente e del corpo dovrebbero curare più la società e meno i soci.  Amen.



Ho visto Nina volare

Perchè le persone vanno ai concerti? Perchè stanno lì, ferme, ad ascoltare qualcosa che non ha niente a che fare con la vita concreta del villaggio? La musica a teatro non fa ballare, non condisce feste, cerimonie, nè accompagna altri momenti importanti della vita della comunità.  E allora?

Allora boh. Cosa volete che ne sappia? Cosa volete che scriva? Da quando la nostra società si è dedicata alla omologazione e ha sventrato le vite dei cittadini per riempirle di concetti e stili adatti alla bisogna, la gente va ai concerti per:

a) sentirsi parte del mondo omologato, appunto

b) fuggire l’angoscia che questo gli crea.

Ma per fortuna la musica riesce anche a dare:

1) l’esperienza unica del diverso scorrere del tempo

2) l’opportunità di raggiungere un godimento estetico meno banale del solito.

Chi vuole suggerire qualcosa di altro e di di diverso, lo dica ora o taccia per sempre.

Bene. Stefano Di Battista al sax soprano (bis eseguito con sax tenore), Fabrizio Bosso alla tromba con e senza sordina, Roberto Tarenzi al pianoforte, Dario Rosciglione al contrabbasso e Marcello Di Leonardo alla batteria, hanno omaggiato Fabrizio De Andrè al Teatro Massimo di Cagliari. I cinque jazzmen hanno ripreso alcuni brani del cantautore ligure, li hanno arrangiati in chiave “european-jazz” con tanto, tanto buon swing, ci hanno quasi improvvisato sopra con un telaio ben strutturato  e delicato (per non offendere le orecchie poco educate dell’ascoltatore medio) e hanno rapito la platea (ma anche la loggia) su un tappeto volante i cui motori soffici e assolutamente avvolgenti erano quelli azionati dal trio ritmico (batteria, pianoforte e contrabbasso).

Il jazz è stato ed è anche questo: incontrare musiche non jazz e rielaborarle. In Italia l’hanno fatto in tantissimi, a partire da Gianni Basso e Franco Cerri e la tradizione continua con questo Stefano di Battista che più che virtuoso dello strumento è un raffinato arrangiatore.

Momento centrale del concerto, la magia della tecnica di mix che ha permesso al quintetto jazz di accompagnare la voce di De Andrè nel brano “Ho visto Nina volare”.  Struggente pezzo sui primi amori di Fabrizio e sulla disobbedienza al padre, con sopra l’ottimo intreccio dei cinque.

Dunque, ha svolto il suo compito, questo concerto? Ha esaudito i desideri dei paganti?

Direi di sì. La musica ha rinnovato il suo impegno di essere astrazione pura e, in quanto tale, capace di cancellare i rapporti col tempo dimostrandone la relatività, come Albert Einstein.

Il mio piede è stato in costante ritmico movimento per 90 minuti, a testimonianza e prova che si è trattato di un concerto jazz in cui il swing l’ha fatta da padrone. I ritmi hanno spaziato tra quattro e cinque quarti; le cadenze armoniche rielaborate per nascondere e poi esaltare le linee melodiche di De Andrè, anch’esse abbastanza camuffate (perfetto, a mio avviso, Don Raffaè); i fraseggi di Bosso e Di Battista, complessi, ricchi, tecnicamente puliti, arzigogolati da capogiro, con escursioni ampie, anche se Bosso non ha mai toccato note altissime.

L’unico appunto: il pianoforte troppo sacrificato. Non so se per scelta o per errore del tecnico del suono che non ha ben regolato il volume dell’audio, ma gli “assolo”  di Tarenzi, bellissimi, sono rimasti nell’ombra. Peccato, avrei dato nove.

Voto al concerto: 8



sabato, maggio 01, 2010

Basilicata, coast to coast


Basilicata, coast to coast

Alla fine del film (sì perchè Basilicata coast to coast è un film, scritto, diretto e interpretato da Rocco Papaleo)  lo spettatore ritorna alla domanda iniziale del protagonista: ma esiste la Basilicata? E dove era fino ad ora? Perchè non me ne sono mai accorto?

Insomma, tra inquadrature ricercate e fotografia “nebbiosa”, paesaggi naturali mozzafiato e scorci di paesi arroccati tra le nuvole, il film è un grande e gradevole spot sulla Basilicata e le sue bellezze (bellissime bellezze), ma anche la storia delicata di un cammino (dal Tirreno allo Ionio, a piedi) di un gruppo di musicisti alla ricerca di se stessi e di un senso da dare alla propria vita,ognuno smarrito in una vicenda passata.

Direi un film hippy (quanti di noi hanno fatto o sognato un “pellegrinaggio” laico in tenda e sacco a pelo tra boschi e paesini medievali, con amici e chitarre al seguito) che rende implicitamente omaggio a Luis Bunuel e Sergio Leone e, esplicitamente, a Carlo Levi e alla “sua” Gagliano (Aliano). Come in Levi, è la gente di Basilicata, il suo volto e la sua sospensione in un tempo senza tempo ad essere il valore aggiunto del film, se non il suo oggetto/soggetto principale.

Ma è anche un film con una grande sorpresa, per me, cioè Rocco Papaleo. Lo conoscevo solo come attore comico, lo scopro scrittore sensibile e attento, nonchè regista “colto” e “raffinato”, con il gusto per la citazione e l’omaggio, senza velleità strabordanti e pretenziose, eppure con un gusto originale ben definito. E poi i soliti Alessandro Gassman e Giovanna Mezzogiorno, che aggiungono al film un tocco di sapiente profondità interpretativa.

Basilicata coast to coast, voto: 7



martedì, marzo 09, 2010

Bella, il sindaco di Cagliari legge i giornali ...

Ore 18,15 Consiglio comunale, il sindaco Floris esterna il suo pensiero sulle pale eoliche. L'aula pende dalle sue labbra.
Lui è contrario alle pale nel Golfo degli Angeli (sospiro di sollievo da entrambe le bancate, a sinistra e a destra) e ha letto sui giornali che anche altri primi cittadini delle città che si affacciano sullo stesso mare sono contrari. L'ha letto sui giornali? Pensavamo ci fosse già un coordinamento, un tavolo di raccordo (magari con due ricci sopra)...
Poi Floris ammette di non essere documentato sui possibili danni a poseidonia, spiaggia sommersa e spiaggia emersa. E che aspetta? Un altro ripascimento? Ma gli astanti, tranne Cugusi, fanno finta di non cogliere.
Però fa tenerezza, il sindaco. Ama il paesaggio di Cagliari e lo dice candidamente. Si vede e si sente che è cagliaritano. Ama le radici (medicamentose) della nostra città e dei suoi abitanti, ama il paesaggio storico, culturale, marino e logico (paesaggio logico?). Sì, logico, perchè è grazie alla logica che tornano alla mente il Poetto (e il ripascimento), Tuvixeddu e le tombe puniche (con l'assiro Cualbu), lo "storico" Sant'Elia (da buttare giù per Cellino), tunnel carpiali in via Roma e mica per togliere auto ma autobus... Insomma la summa è: meglio Zirone di Gigi Riva. Come è possibile che un uomo che ha fatto tutto questo sia ora nemico acerrimo delle torri eoliche? Dov'è la logica?
Eccola la logica: diporto e vela. Le pale disturbano le regate veliche e tutto ciò che intorno a loro ruota (le pale, appunto).
Suvvia sindaco, un po' di coerenza. Ci sta bene la sua posizione controvento, ma stia più attento alle tantissime altre vertenze ambientali e ambientaliste che coinvolgono città e cittadini.
Grazie

cagliarimonamour  

martedì, febbraio 23, 2010

Giuliano Ferrara suona la ritirata?

«Una corte è una corte, e i cortigiani sono vil razza dannata, lo si sa dal melodramma. Ma dietro il fumo divisivo, l'avvelenamento dell'aria, la guerra di tutti contro tutti, c'è sempre un difetto di conduzione che risale al principe. Berlusconi non va in parlamento da quando presentò alle camere il governo, e sono quasi due anni. Non fa un discorso impegnativo da mesi e mesi. Non tiene ferma la barra e non la fissa con chiarezza su una rotta di iniziative e di riforme discernibile, che sia il segno esterno chiaro del significato del suo comando, della sua leadership». Non è un giornale di quelli che il premier definisce «disfattisti» a stilare questi giudizi ma «il Foglio», per la penna dell'Elefantino Giuliano Ferrara, preoccupato del rischio di una ingloriosa decadenza della leadership del cavaliere. Dunque ci si può credere, la fine dell'era berlusconiana sta entrando nell'ordine di idee dei collaboratori più prossimi del premier, non solo nei desiderata degli avversari più lontani. Quanto però a intuire, di questa fine, le modalità possibili, o a delineare gli scenari del dopo, qui l'immaginazione politica difetta, a destra e a manca. E a destra e a manca azzarda più la previsione di un'erosione interna che quella di una spallata esterna: una corte è una corte, e in linea con la regressione dell'Italia da democrazia costituzionale a monarchia assoluta sarà utile rispolverare le reminescenze shakespeariane sul marcio, il verminaio, la decomposizione che implacabilmente maturano sotto l'apparente splendore delle corti, attaccando prima prima o poi il corpo del re e il corpo del popolo nella loro unità mistica e nella loro identificazione speculare.
Anche la saggistica d'opposizione la pensa così. A immaginare la fine dell'era berlusconiana si spingono due libri recenti, «Berlusconi passato alla storia. L'Italia nell'era della democrazia autoritaria» di Antonio Gibelli, appena uscito da Donzelli, e «La bolla. La pericolosa fine del sogno berluisconiano» di Curzio Maltese (Feltrinelli). Tutti e due, con maggiori cautele il primo e con maggior sicurezza il secondo, leggono i segni e i segnali del tramonto seminati dai cosiddetti «scandali» dell'ultimo anno (Maltese: «La favola nera di Silvio Berlusconi è finita con la regina che grida al re nudo»), tutti e due lo immaginano venato delle stesse tinte fosche che hanno caratterizzato l'alba e il mezzogiorno del berlusconismo, tutti e due lo affidano più a una consunzione o autoimplosione interna che a una riscossa della sinistra. Per Gibelli, «quel che si può intravedere è una maggiore scollamento della maggioranza», e «quel che si può prevedere è il declino biologico del leader», inesorabile contrappasso rispetto all'investimento da lui compito sulla propria persona e la sua vitalità: «esattamente come accadde nel caso di Mussolini, quando i segni del suo declino corporeo furono interpretati come indizi del suo tramonto politico». E come nel caso di Mussolini, «è assai probabile che gli italiani diventino in maggioranza antiberlusconiani non prima ma dopo che il leader sarà tramontato». Prospettiva deprimente, che non solo riporta a galla il carattere nazionale del conformismo, ma dice quanto profonda sia l'impronta dell'egemonia berlusconiana sul ventennio, e quanto complicato sia disfarsene: «Chi si illude che tutto si risolverà con la fine di Berlusconi, magari accelerata dagli scandali, commette - scrive Maltese - lo stesso errore di chi alla fine della prima Repubblica si illudeva che bastasse mandare in galera o a Hammamet qualche leader corrotto. Dimostra di non capire quanto e come ha agito il berlusconismo nella società. Non è stato il fascismo, ma ha svuotato la democrazia, nei palazzi delle istituzioni come nelle teste dei cittadini. Non è stato facile arrivare a tanto e non sarà semplice uscirne». Maltese ricorda del resto, e fa bene, quanta incredulità suscitasse nel '93-'94, fra i politici e i commentatori di sinistra, l'ipotesi della scesa in campo prima, e poi della vittoria di Berlusconi; e quando scrive che ancora oggi, per quanto possa sembrare assurdo, «Berlusconi resta un oggetto misterioso per i leader della sinistra», mette il dito sulla piaga di un'opposizione che per vent'anni, oscillando fra demonizzazione e compromesso, non ha mai saputo prendere la misura giusta del fenomeno e la mira giusta del contrattacco.
Vent'anni però, per quanto si possano contrarre nella memoria di noi che li abbiamo vissuti e patiti quotidianamente, dal punto di vista dell'analisi storica sono un tempo sufficiente a delineare un'epoca. Vent'anni durò il fascismo, dodici il nazismo, e in molti meno si sono decisi processi storici di pari entità. Dunque, non solo dal punto di vista politico ma anche dal punto di vista storiografico, il berlusconismo, scrive Gibelli, «è venuto il momento di prenderlo sul serio»: non meno dell'«età giolittiana», l'«Italia berlusconiana» appare ormai compiutamente definita da un insieme compatto di coordinate riconoscibili.
Quali? Galoppando fra la genesi (negli anni 80 di Craxi), l'esordio (il dopo-Tangentopoli), il successo, gli alleati (Lega e cattolicesimo tradizionalista in primo luogo), Gibelli le riassume in modo essenziale, con il linguaggio e la sintesi di una lezione di storia rivolta a chi verrà, o a chi nell'Italia berlusconiana è nato e cresciuto e non ne ricorda o non ne immagina un'altra. Personalizzazione e spettacolarizzazione della politica, ridimensionamento del ruolo dei partiti tradizionali a vantaggio di movimenti a leadership carismatica, affermazione di tendenze antipolitiche «più durature e tenaci» di quelle affiorate in precedenza nella storia nazionale, primato della televisione nella formazione del costume e dell'opinione pubblica: qui sta la fenomenologia di quello che può a buon diritto definirsi «la manifestazione per ora più compiuta della politica post moderna» nell'Occidente democratico. Un - triste - primato in cui l'Italia torna a rivelarsi il laboratorio sintomatico di una tendenza più ampia, occidentale appunto, alla de-formazione della democrazia liberale costituzionale. Deformazione che passa sotanzialmente per l'abbattimento della divisione dei poteri, il loro accentramento in una persona sola, il ritorno di una sovranità assoluta, cioè affrancata dal controllo dei contropoteri, la magistratura in primo luogo. E' quello che sappiamo dalla cronaca. L'occhio dello storico è d'aiuto però su un punto cruciale, sul quale l'occhio dei politici e degli osservatori invece indigia e oscilla da anni: la congruità del termine «regime» per definire il berlusconismo, la legittimità del paragone con il fascismo, l'autoritarismo, il totalitarismo. Con precisione, scrive Gibelli che se è «improprio parlare di una dittatura in senso classico, è insostenibile la tesi che ci si muova nella normalità democratica»: trattandosi ormai piuttosto di una «democrazia illiberale». E ancora: «L'uso di termini come autoritarismo e totalitarismo viene spesso boillato come manifestazione di un allarmismo ingiustificato e controproducente. Quando non è frutto di conformismo, questo atteggiamento discende da un equivoco. E' chiaro che i due termini possono essere applicati solo a patto di mettere l'accento sulle forti differenze di significato rispetto ai loro usi classici. Autoritarismo non può significare in questo caso uso prevalente della forza repressiva dello Stato». Ma nel discorso politico berlusconiano «è possibile cogliere una vocazione in senso lato totalitaria»: ad esempio nella fobia per il contraddittorio, o nella sostituzione del «popolo - il tutto - al partito - la parte. Così come, se è evidente che «Berlusconi non è né Hitler né Mussolini», comuni ai tre sono elementi inquetanti di uso del carisma, dell'immagine, della fascinazione personale. Quanto basta per tentare di uscire dal ventennio prima che imploda da sé.
POLITICA O QUASI

Berlusconi, storicamente parlando

Ida Dominijanni

il manifesto 23/2/10



venerdì, febbraio 19, 2010

L'ITALIA IN VAL DI SUSA

Quanto è accaduto in Val di Susa nella notte tra mercoledì e giovedì è terribilmente significativo dell'Italia di oggi.
Per certi versi tragicamente esemplare. Mentre il paese intero sprofondava nel fango per lo scandalo della Protezione civile, esattamente nel momento in cui a Roma i giudici della Corte dei Conti denunciavano la crescita esponenziale della corruzione, lo Stato si scatenava, con una violenza del tutto sproporzionata e ingiustificata, contro una popolazione che - tra i pochi - tenta di contrastare la logica dell'affarismo e la devastazione del territorio. Comandava la piazza - guarda chi si rivede - lo stesso alto funzionario per il quale i PM titolari dell'inchiesta genovese sul «macello» della scuola Diaz avevano chiesto la condanna a un anno e mezzo di reclusione con l'accusa di aver tentato, come il suo capo De Gennaro, di occultare le responsabilità. E che con De Gennaro era stato assolto, con una sentenza che sollevò scandalo.


Non stupisce che anche questa volta le testimonianze parlino di un accanimento particolare nei pestaggi, con scene simili a quelle di Genova 2001: l'uso feroce dei manganelli, la gente a terra malmenata da grappoli di agenti inferociti, la caccia all'uomo anche quando gli assembramenti erano sciolti, complice l'oscurità e l'assenza di giornalisti. Risultato: un giovane in gravissime condizioni per un trauma cranico con emorragia, una donna di Villarfocchiardo con fratture plurime al volto e alle costole e sospette lesioni interne, decine di feriti curati dai medici in valle per timore dell'arresto in ospedale.
Il tutto per realizzare un'impresa inutile, futile se non truffaldina come ben sa chiunque si sia occupato da vicino della cosa: un carotaggio dal puro significato simbolico, in un terreno geologicamente già ben conosciuto e analizzato, fatto con l'unico scopo di mostrare burocraticamente a Bruxelles che qui si «fa qualcosa» e raccattare con un espediente i fondi europei stanziati. Un dispendio di denaro pubblico per intercettare flussi finanziari da redistribuire nella rete delle imprese e dei professionisti coinvolti in attività prive di utilità reale.
C'erano, dunque, in un «punto solo» - nello spazio sintetico di un episodio - un po' tutti gli ingredienti della crisi italiana. Di questo lungo, strisciante 8 settembre della repubblica, senza Alleati e senza partigiani, in cui tutto sembra «andare giù» nel fragore del gossip e nell'impotenza delle azioni. C'era l'arroganza cieca di un potere logoro ma ancora capace di far male. C'era il ritorno arrogante, preponente, del nostro passato prossimo non risolto né emendato: la vergogna cruenta di quel G8 genovese, incrociata e sovrapposta alla vergogna sordida del mancato G8 sardo, l'uno all'insegna delle torture (impunite) della Diaz e di Bolzaneto, l'altro delle escort del Centro massaggi romano... C'era, infine - a far da capro espiatorio e a testimoniare un residuo di dignità - la solitudine politica di un pezzo di «popolo» che comunque resiste alla logica che ci ha portati fin qui. E non accetta la riduzione della propria comunità a merce da svendere e mettere a profitto.


Marco Revelli
il manifesto 19/2/10

NO TAV Notte del 18-02-2010. Il Blocco della valle di Susa

giovedì, febbraio 18, 2010

Fonsarda, Tuvixeddu



Venerdì 19 febbraio, al T-Hotel di Cagliari (ore 17,30), Franco Melis presenta il suo ultimo libro: "Quei giorni a Fonsarda".
Si tratta di una raccolta di "storie" che hanno come sfondo comune, incombente e pregnante, la lotta degli abitanti di un quartiere di Cagliari che si svolse alcuni decenni fa contro la costruzione di alcuni palazzoni, a scapito e danno di orti e mandorleti. Fu a mio avviso la prima battaglia che affrontava i temi del diritto dei cittadini a partecipare alla discussione e alle decisioni politiche che li riguardavano. Una sorta di bilancio partecipativo alla Porto Alegre; una specie di lotta no-global antesignana, che mirava a tutelare soprattutto la qualità dell'ambiente e delle relazioni tra le persone, che difendevano i "luoghi" degli incontri, delle chiacchierate, insomma della socialità del quartiere.
Da quelle battaglie - che si intrecciavano con le lotte studentesche e operaie degli anni '70 - nacque e si irrobustì una generazione di "sognatori concreti", li chiamo io, che imparò a mettere lingua su ciò che non ritenevano giusto, e di denunciare, spesso inascoltati, il malaffare e le commistioni insane all'interno dei palazzi della politica cittadina.
La lotta degli abitanti di Fonsarda, così si chiama il quartiere "incriminato", torna in auge quarant'anni dopo nel momento in cui, a Cagliari, si svolge un'altra simile battaglia contro i palazzoni: quella di Tuvixeddu.
I temi sono gli stessi, con in più la memoria storica di un'intera città da difendere, con il suo paesaggio e il suo passato. La necropoli punica più grande e importante del Mediterraneo rischia di essere "valorizzata" alla solita maniera della lobby del mattone: ti faccio il parco a mie spese, però intorno mi costruisco 28 unità immobiliari, per 14.630 metri cubi di costruzioni.
Gli amministratori locali, dando l'impressione di essere avvezzi a tutelare e favorire i privati piuttosto che l'interesse pubblico, usano la seguente tecnica: non si occupano minimamente di valorizzare gli spazi pubblici, che anzi lasciano in condizioni di abbandono evidente, e poi plaudono all'intervento del privato grazie al quale quello spazio pubblico ritorna, in parte, fruibile. Tutti felici e contenti. Punici, cagliaritani e costruttori.
Intorno a Tuvixeddu si sta svolgendo uno scontro a colpi di carte da bollo e di interventi parlamentari che, a gamba tesa, vorrebbero favorire gli interessi privati, attraverso un provvedimento che toglierebbe la competenza sui nullaosta paesaggistici alle sovrintendenze, in barba al Codice Urbani, per restituirla a comuni e regioni.
La differenza tra Fonsarda e Tuvixeddu mi pare però essere proprio sulla quantità e qualità del coinvolgimento popolare, degli abitanti del quartiere, dei movimenti e dell'intera comunità cagliaritana.
Dove siete, cari lottatori di Fonsarda?
Per capirne un po' di più, e per ritrovarli, domani pomeriggio vado a sentire Franco Melis nella presentazione del suo "Quei giorni a Fonsarda", venti storie inventate, forse tutte vere.
  

mercoledì, febbraio 17, 2010

«Ma il G8 a La Maddalena era giusto»


Intervista a Stefano Boeri, l’architetto che progettò il nuovo Arsenale de La Maddalena

Stefano Boeri, lei è l’architetto a cui la protezione civile e la Regione Sardegna hanno affidato la progettazione del nuovo Arsenale in vista del G8 poi spostato a L’Aquila. Le era mai venuto un dubbio su quello che accadeva attorno a lei?
La vicenda è iniziata come una sfida bellissima. Si trattava di usare un grande evento come il G8 non solo per adattare spazi abbandonati, ma per rimettere a posto un territorio inquinato, all’interno di un posto meraviglioso come l’Arcipelago di La Maddalena. Di più: si voleva usare questa ristrutturazione per lanciare un nuovo modello di sviluppo economico e sociale per quel territorio, dalle servitù militari al turismo sostenibile legato alla vela, all’artigianato nautico. Questa era la sfida lanciata nel dicembre 2007 da Renato Soru, condivisa con Prodi e Bertolaso. Quando mi è stato chiesto di partecipare, ho accettato con entusiasmo.
Ora che ha letto le intercettazioni?
Vivo da una parte una rabbia fortissima, perché queste ipotesi di corruzione rischiano di oscurare un anno di lavoro appassionato e onesto di decine di giovani tecnici, architetti e anche operatori della protezione civile. E dall’altro la soddisfazione di vedere che almeno le opere che abbiamo seguito sono pronte e saranno tra breve tempo usate. Insomma, la gran parte dei soldi impiegati non sono andati nelle tasche sbagliate.
Ha avuto mai qualche sospetto? Che alla velocità fosse immolata la trasparenza?
Se avessi avuto una prova di quanto si legge oggi sui giornali, sarei andato dai magistrati. Del resto, le intercettazioni fanno capire che tutto si è svolto con accordi che non erano visibili a noi che passavamo le giornate a disegnare e poi sul cantiere a verificare i disegni. Sinceramente, non sospettavo nulla del genere.
Ha avuto modo di conoscere Bertolaso, Balducci e De Santis?
Certo. De Santis è stato con noi per un periodo brevissimo. Balducci, l’ho conosciuto come soggetto attuatore delle opere e poi come presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Bertolaso l’ho incontrato molte volte, era una figura trainante di tutta l’operazione.
La procura scrive che c’è stato lo sventramento dell’isola.
In tutta serenità posso dire che è stato un lavoro di straordinario recupero ambientale e paesaggistico. Abbiamo progettato il recupero di 150mila metri quadri di banchine inquinate da idrocarburi e amianto, ristrutturato tre grandi edifici abbandonati e abbiamo costruito meno di quanto abbiamo demolito, stando sempre sotto i dieci metri di altezza, rispettando i criteri del piano paesaggistico della Sardegna voluto da Soru. Permettemi anche di dire che le strutture sono bellissime, un esempio di rispetto dell’ambiente. I lavori erano stati chiusi in tempo per il G8.
Immagini filmate recentemente mostrano una struttura abbandonata. Che rischia di diventare l’ennesima cattedrale nel deserto.
Sono immagini capziose, che fanno vedere una scrostatura di cinque metri di intonaco dovuta a scarsa manutenzione di un unico soffitto. Non faccio il capocantiere, ma assicuro che gli edifici sono oggi integri, è normalissimo che ci siano problemi di manutenzione in una zona di mare. Ora c’è un gestore che sta preparando gli edifici per la prossima Vuitton Cup di maggio. Da lì partirà la stagione turistica. Per quel che riguarda l’Arsenale, la parte che abbiamo seguito come progettisti, mi pare che le cose possano partire bene. Del resto, nel caso si fosse tenuto il G8 era previsto che il gestore cominciasse a lavorare dopo un anno di messa a punto degli edifici.
Non è una struttura sovradimensionata per la Vuitton Cup?
No. Ci saranno dieci equipaggi, e almeno 500 persone tutti i giorni a lavorare. Questo evento avrà un ruolo trainante per il nuovo polo nautico.
Cosa pensa della legge sulla protezione civile spa?
Bisogna ragionare sul perché si ricorre all’emergenza in casi che emergenze non sono. Anche se il G8 per la Maddalena era un’urgenza.

Sara Menafra



martedì, febbraio 16, 2010

Il massaggio del Tg1


Lungo spot promozionale sulle meraviglie del famoso Salaria Sport Village. Black-out, invece, sull'indignazione degli aquilani. È la mistura un po' indecente servita agli italiani dal Tg1 di Augusto Minzolini, alle otto di domenica sera. Il più seguito telegiornale nazionale non ha voluto mostrare le immagini, diffuse dagli altri tg, dei terremotati arrampicati sulle macerie con la rabbia scritta sui cartelli («io non rido»). Qualche flash, ma solo a notte fonda. Oscurare il luogo del dolore, cancellare dallo schermo l'indignazione provocata dalle frasi degli imprenditori intercettati. E scegliere di illuminare il luogo del benessere, accompagnando il pubblico in un rassicurante e confortevole tour nel paradiso del relax. Per dimostrare l'innocenza di Bertolaso, proprio quando le ultime intercettazioni alzano il velo su favori e favorite al servizio del grande capo.
Le «problematiche alla cervicale» del sottosegretario Guido Bertolaso, tessera di platino del centro benessere Salaria Village, hanno trovato accurata ospitalità nel Tg1 della sera (domenica, edizione delle 20). L'inviata di Minzolini, tra cyclette e vasche idromassaggio, ha intervistato le addette al relax, con voce fuori campo impegnata a spiegare come «una volta al mese» il capo della protezione civile si sottoponesse, «in una cabina dalla porta scorrevole, senza chiavi», alle cure del corpo stressato.  Sappiamo tutto di Francesca, delle sue referenziate qualità professionali, e nulla sulle telefonate tra i manager dei Grandi Eventi per abbigliare adeguatamente le brasiliane, o per ripulire il luogo degli incontri. Meglio evitare i dettagli scomodi e servire, alla grande platea della tv, l'appello finale di un dipendente, giustamente preoccupato di «mantenere i posti di lavoro». Uno spot non avrebbe potuto fare meglio.
Quanto al resto dell'inchiesta sulle ruberie degli «attuatori» dei Grandi Eventi, quasi niente, a parte le ragioni degli avvocati difensori degli indagati. Persino il gran ciambellano, Gianni Letta, si è dovuto accontentare di una fugace citazione (neppure un viva voce) sul che fare della società SpA della protezione civile, al centro dello scontro di potere interno alla maggioranza di centrodestra.
Ma peggio di tutti è andata alla gente dell'Aquila, molto arrabbiata con quei manager messi di buonumore dalla tragedia del terremoto. I sette milioni di telespettatori del Tg1 non hanno visto il cancello del centro storico dell'Aquila aprirsi sotto la spinta dei terremotati, non hanno visto la polizia schierata che prova a impedire lo sfondamento delle transenne, per poi lasciar passare le persone. Se ne sono andati a letto ignoranti e abbuffati di «fiori e frappe» dedicati ai cuori di S.Valentino e ai carri del carnevale.
Quando si parla, spesso a sproposito, di par condicio, assistiamo alla mobilitazione generale degli opposti schieramenti. Toccare i politici, mettere in discussione i talk-show di sicuro infiamma il dibattito sulla libertà di informazione. Se invece l'informazione la manipoli ogni giorno, ci fai l'abitudine e magari nessuno se ne accorge.

Norma Rangeri
il manifesto
16/2/10
 

sabato, febbraio 13, 2010

Contro di me scelte di guerra


Nella sua storia l’umanità è stata spesso testimone di intrighi usati dalle potenze dominanti come strumento per la conservazione del potere. Si potrebbero citare numerosi esempi, dai Sumeri all’impero romano. Sono premesse storiche lontane, ma spiegano bene le congiure delle quali il popolo kurdo spesso è stato vittima. Credo che la congiura internazionale che il 15 febbraio 1999 terminò col mio rapimento e deportazione in Turchia, sia uno degli eventi più importanti nella tradizione di intrighi delle potenze dominanti
La mia odissea attraverso l’Europa iniziò il 9 ottobre 1998 con la partenza dalla Siria. Mi condusse ad Atene, in Russia ed in Italia. Da lì fui costretto a tornare in Russia e poi nuovamente in Grecia. Il tutto terminò col mio rapimento dal Kenya. Parlo di una congiura internazionale, poiché l’intero processo al quale prese parte una coalizione di potenze di quattro continenti, oltre ad intrighi politici ed interessi economici, conteneva anche un complesso mix di tradimento, violenza e inganno.
Nonostante siano passati 11 anni, credo che questa congiura internazionale rivolta, attraverso la mia persona, contro il popolo kurdo possa suscitare interesse ancora oggi. Comprenderne le cause e le conseguenze può contribuire a far luce sulla situazione politica attuale. Non ci sono dubbi sull’obiettivo primario degli attori principali, gli Usa, vale a dire l’eliminazione del nostro movimento di liberazione. Gli Stati Uniti, con il loro progetto di Grande Medio Oriente, volevano accendere la fiamma del nazionalismo e creare nuovi piccoli stati nazionali per mantenere il controllo del Medio Oriente nei decenni a venire. Un tale progetto non lascia naturalmente alcuno spazio ai movimenti di liberazione. Esiste quindi un collegamento diretto tra il loro progetto di un Grande Medio Oriente e la mia estradizione in Turchia. Gli avvenimenti che si sono succeduti dal 2003 confermano la mia affermazione. Il fatto che noi rappresentiamo una terza, vera alternativa, rispetto ad un equilibrio fondato esclusivamente sulla scelta tra potenze dominanti internazionali e forze reazionarie regionali, ci ha resi bersaglio di attacchi ideologici e politici.
Oltre a questo fine principale, la congiura internazionale perseguiva altri due obiettivi. Da un lato, con la mia morte o la mia reazione all’estradizione, ci si aspettava un’etnicizzazione del conflitto, vale a dire una guerra tra turchi e kurdi. Quello a cui oggi assistiamo in Iraq era stato allora pianificato per la Turchia. L’indebolimento della Turchia a tutti i livelli – sia politico che economico – l’avrebbe completamente legata agli Usa. Il mio comportamento accorto ed il mio intervento per una soluzione pacifica sventarono invece questo piano. Si evitò «l’irachizzazione» della Turchia. Ho lottato con tutte le mie forze per una soluzione pacifica. L’ho fatto di mia spontanea volontà e nella convinzione che fosse nell’interesse dei popoli. Ho inoltre sempre mantenuto un comportamento indipendente e pacifico. È proprio per questo motivo che siamo stati la loro spina nel fianco. Il movimento di liberazione kurdo aveva sempre inteso la propria battaglia, in corso ormai da vent’anni, come difesa del sentimento di fratellanza tra Turchi, Kurdi e tutti i popoli del Medio Oriente. Ha sempre avuto come fine un’unione democratica. Abbiamo sempre fatto affidamento sulle nostre forze e sulla nostra libera volontà. Abbiamo sempre fatto tutto il possibile per preservare la nostra sovranità. Per questo motivo, nonostante la situazione estremamente critica, continuai con la nostra politica perseguita a partire dal 1993 e volta ad una soluzione democratica e pacifica. Ciò in accordo con la nostra linea e come risposta alla congiura. Se la congiura quindi non ha conseguito a pieno il suo scopo, lo si deve in buona parte alla nostra strategia per la pace e per una soluzione democratica.
Dall’altro lato questa congiura politica ebbe anche una dimensione economica. Fin dall’inizio ho sempre sottolineato l’importanza del progetto del gasdotto chiamato Blue Stream, sul quale bisognerebbe fare chiarezza e che fa parte di questa rete di intrecci economici. Blue Stream è un grande gasdotto che trasporta il gas russo in Turchia passando sotto il Mar Nero. Di recente attraverso i miei avvocati sono venuto a conoscenza di un articolo apparso su un giornale turco, nel quale uno dei funzionari allora in servizio afferma che questo progetto, inizialmente bloccato a causa delle condizioni svantaggiose per la Turchia, dopo la mia espulsione dalla Russia il 12 novembre 1998 venne improvvisamente ripristinato su richiesta del governo turco. Ciò avrebbe cambiato il destino del progetto. Il funzionario continua dicendo che dopo la mia partenza dall’Italia il gruppo italiano Eni entrò a far parte del progetto. Questo esempio da solo basta a mostrare come, in collegamento con la mia persona, si stringono accordi economici alle spalle del popolo kurdo. Queste losche relazioni vanno ben più in profondità di quanto ad oggi non si sia potuto scoprire. Gli stati europei affermano ripetutamente di rappresentare la democrazia ed i diritti umani. Tuttavia mi chiusero tutte le porte e non fecero alcun vero tentativo di giocare un ruolo costruttivo nella soluzione della questione kurda. Al contrario si inchinarono ancor di più al volere degli USA e della Nato e, accettando di divenire il palcoscenico della congiura, si assunsero una parte infelice e drammatica. Ecco il vero volto del sistema europeo.
In questo contesto il governo greco giocò un ruolo particolare. Il fatto che andai in Grecia a seguito di un invito da parte di alcuni amici e che fui rapito e portato in Kenya, in violazione del diritto nazionale ed internazionale, mostra come a questo paese venne affidato il ruolo più sporco. Qui si rivelarono nel modo più palese le menzogne, il tradimento e l’ipocrisia che sono alla base del concetto di congiura. L’Italia invece, se paragonata agli altri paesi, si comportò in maniera leggermente migliore. Tuttavia anche lì venni isolato e fecero di tutto per liberarsi di me. Credo che durante il mio soggiorno a Roma abbia avuto un ruolo decisivo un’unità della Gladio, contro la quale il governo italiano era impotente. Il governo italiano non ebbe la fiducia in se stesso e le forze necessarie per prendere una decisione autonoma. Devo comunque ricordare che, a differenza del governo greco, tutto ciò che accadde dopo il mio arrivo fu trattato nell’ambito del diritto.
Ancora una volta vorrei ribadire che farò di tutto per opporre a questi intrighi la pace ed una soluzione democratica. Il fatto che la Turchia come in passato non abbia alcuna reazione ai nostri tentativi di pace, ma persegua una strategia volta all’eliminazione del movimento di liberazione, può essere interpretato come la continuazione della congiura internazionale. A tale riguardo la strategia della pace e della democrazia rappresenta un’opzione importante non solo per i kurdi, ma per tutti i popoli del Medio Oriente.
I cospiratori di allora, le forze reazionarie nazionali ed internazionali, reggono ancora le fila come in passato. Tuttavia anche le forze che combattono per la democrazia e la libertà continueranno la loro lotta, al pari del popolo kurdo e avanzeranno sulla loro strada decise e risolute. Le dimensioni di questa congiura hanno mostrato quanto sia importante che gli oppressi ed i popoli del mondo contrappongano all’ «offensiva globale» del capitalismo una loro «democrazia globale», e rafforzino ulteriormente questa posizione. Io la penso così, oggi come allora.
Abdullah Ocalan
Traduzione: Simona Lavo