giovedì, maggio 25, 2006

De profundis per l'Italia

Ansa 24/5/06

ROMA - Povertà stabile (7,6 milioni gli indigenti) negli ultimi otto anni in Italia che resta però fra i paesi europei con più alto grado di sperequazione dei redditi. Questo vale soprattutto al Mezzogiorno, dove le famiglie percepiscono circa 3/4 del reddito delle famiglie che vivono al Nord. Lo rileva l'Istat nel rapporto annuale presentato oggi. Pur con molta variabi-lità, una famiglia su due ha un reddito mensile netto inferiore a 1.670. Ma ben un milione e mezzo di persone percepisce un reddito mensile basso, mediamente meno 783 euro, e vive in contesti familiari economicamente disagiati.

DISUGUAGLIANZE, ITALIA QUASI PRIMA IN EUROPA - L'indice di concentrazione dei redditi (pari a 0,30) colloca in basso l'Italia, insieme a Portogallo, Spagna, Irlanda e Grecia. Il mezzogiorno è il più fragile in questo contesto non solo rispetto al nord ma anche all'interno delle proprie regioni. I fattori individuali che influenzano la distribuzione dei redditi sono il livello di istruzione, il genere, l'età. Le famiglie del 20% più ricco detengono il 40% del reddito totale.

COME SONO I REDDITI - Nel 2003 il reddito medio per famiglia è stato di 24.950 euro, circa 2.079 euro al mese. Il red-dito è composto per il 43,1% da lavoro dipendente e per il 32,9% da trasferimenti pubblici (il 92% riguarda pensioni). Le famiglie che hanno come fonte principale il reddito da lavoro autonomo possono contare, in media, su entrate maggiori. Al sud di solito c'é un solo percettore di reddito, mentre al nord due o più.

CHI PERCEPISCE REDDITI BASSI - Il 28,2% delle donne contro il 12,3% degli uomini; il 36% dei giovani con meno di 25 anni; il 32% di chi ha un basso titolo di studio; il 21% delle persone che lavorano nel settore privato; il 40% dei lavora-tori a tempo determinato. Ruolo importante è assunto anche dal numero di ore lavorate durante la settimana: è a basso reddito il 46,7% di chi lavora meno di 30 ore contro il 13% di quelli che ne lavorano almeno 30. Le donne con basso red-dito vivono spesso in famiglie dove ci sono altri percettori di reddito. Oltre il 50% dei lavoratori a basso reddito opera nel-l'agricoltura, nella caccia e pesca e il 42% svolte professioni non qualificate.

POVERE 2 MILIONI 600 MILA FAMIGLIE - Sono l'11,7% del totale per complessivi 7,6 milioni di poveri. Si riferisce alla povertà relativa, quella misurata sulla base dei consumi, che dal 1997 al 2004 è rimasta invariata, pur essendo stretta-mente legata alla mancanza di lavoro e registrando negli anni un minimo del 10,8% ed un massimo del 12,3%. L'emer-genza riguarda il Sud dove una famiglia su 4 è povera e dove le persone povere nell'ultimo anno, un record, sono au-mentate di circa 900 mila persone interessando oltre 1.800.000 famiglie. La povertà interessa per lo più i nuclei con tre o più figli minori, le famiglie dove il riferimento è pensionato o donna, sia anziana o comunque sola.

MOBILITA' SOCIALE RIGIDA, ULTIMI POSTI PER L'ITALIA - Il nostro paese si trova fra i paesi europei con minore mobilità sociale (Francia, Germania, Irlanda) a differenza di Norvegia, Paesi Bassi e Svezia. E' difficile passare da una classe sociale all' altra. Le donne hanno una probabilità maggiore di quella maschile di permanere nella classe di origine: è il caso delle figlie della classe operaia agricola e della borghesia.

PREZZI A RISCHIO CON ASPETTATIVE SALARIALI
L'inflazione, che si è mantenuta sotto controllo negli ultimi mesi, potrebbe risalire a causa delle pressioni salariali dal mondo del lavoro. E' l'allarme lanciato da Luigi Biggeri, presidente dell'Istat, nella presentazione del rapporto annuale. "L'accumularsi di aspettative di recupero salariale, in parte rese probabili dai ritardi dei rinnovi contrattuali e dall'incom-pleto recupero della perdita di potere d'acquisto - ha sottolineato Biggeri - può avere effetti destabilizzanti sulla dinamica dei prezzi e sul quadro macroeconomico". Il presidente dell'Istat ha anche ricordato i rischi sull'inflazione che possono derivare dall'aumento del prezzo del petrolio e da un possibile rafforzamento dell'euro rispetto al dollaro.

ITALIA NON AGGANCIA RIPRESA, POTENZIALE DIMEZZATO
"L'economia italiana non ha agganciato la ripresa mondiale perché esprime un potenziale di crescita inferiore, che di-pende da fattori strutturali, pari a circa la metà dell'euro". Lo ha detto il presidente dell'Istat, Luigi Biggeri, presentando il rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2005. Il sistema economico italiano è costellato da "elementi di debolez-za" ai quali "si aggiungono fattori di vulnerabilità più specifici, quali le esposizioni ai rischi di ulteriore perdita di competiti-vità - ha sottolineato Biggeri - e l'elevata dimensione del debito pubblico, che ci portiamo dietro da decenni". Biggeri ha sottolineato anche la graduale riduzione negli anni dell'avanzo primario che "pone limiti molto forti alla possibilità di con-tribuire alla crescita attraverso la leva della spesa pubblica, e rende necessarie misure strutturali per riportare il debito pubblico dentro un sentiero di sostenibilità".

SISTEMA ECONOMICO RESTA VULNERABILE E FRAMMENTARIO
Se i primi mesi del 2006 l'economia italiana ha cominciato a girare in positivo il sistema resta strutturalmente "vulnerabi-le" e "frammentario". E' quanto evidenzia l'Istat nel Rapporto annuale che fotografa la situazione del Paese nel 2005. "Nel primo trimestre del 2006 - sottolinea l'istituto di statistica - l'espansione riprende forza". Ma alle spalle c'é un 2005 "stagnante" in cui la crescita in Italia ha segnato "una battuta d'arresto" a fronte di un'economia mondiale dove invece "la crescita nel 2005 si è mantenuta vigorosa". Meno drastico il divario di crescita, che comunque permane, se si fa il con-fronto tra l'Italia e gli altri Paesi dell'area euro. "Il nuovo episodio di arresto della crescita dell'economia del nostro Paese - rileva l'Istat - si è inserito all'interno di un quadro di indebolimento dell'attività diffuso tra i Paesi dell'area dell'euro. Il dif-ferenziale negativo del nostro Paese rispetto all'insieme dell'Uem, che aveva già raggiunto 0,9 punti percentuali nel 2004, si è ulteriormente allargato, salendo a 1,3 punti percentuali". In ogni caso la ripresa economica dovrà innestarsi in un sistema, quello italiano, dove la produttività è più bassa che in altri paesi e dove il potenziale di crescita - evidenziano gli esperti dell'Istat citando studi anche esterni all'Italia - è di circa la metà rispetto a quello dell'area euro. I problemi sono legati proprio a quella "frammentarietà" e "vulnerabilità" evidenziate dall'istituto di statistica. La pluralità di soggetti pronti a fare economia può essere un valore se c'é interazione. Quanto invece alla debolezza del sistema produttivo, gli stati-stici evidenziano che è una caratteristica diffusa e che situazioni anche positive nascondono in realtà un equilibrio precario.

LAVORO, DONNE SEMPRE PIU' FUORI. MAI COSI' DA ANNI '90
Nel 2005 il mercato del lavoro ha perso una quota di lavoro femminile determinando ''un ulteriore ampliamento del diva-rio con l'Unione europea". Lo rileva l'Istat nel Rapporto annuale sulla situazione del Paese. Nel 2005 "per la prima volta dalla metà degli anni Novanta il contributo delle donne all'aumento dell'occupazione - sottolinea l'Istat - è stato inferiore a quello degli uomini". La quota delle lavoratrici sul totale degli occupati è scesa dal 39,2% del 2004 al 39,1% del 2005. Nella Ue a 25 il trend è invece opposto: "l'incidenza dell'occupazione femminile è infatti aumentata di due decimi di punto rispetto a un anno prima, portandosi nel 2005 al 44,2%". Le donne hanno contribuito alla diminuzione nel 2005 (del 3,7% pari a 72.000 unità) delle persone in cerca di lavoro. "Il contemporaneo forte incremento del numero di donne inattive residenti nel Sud e nelle Isole e di giovani che proseguono gli studi - evidenzia l'istituto di statistica - indica il diffondersi di fenomeni di rinuncia a intraprendere concrete azioni di ricerca di un impiego". Più complessivamente "continua a ral-lentare la crescita dell'occupazione", che invece era stata sostenuta a partire dal '95. E aumenta il tasso di disoccupa-zione, soprattutto tra i giovani (nel 2005 al 24%, con un incremento sul 2004 dello 0,4%). Sostanzialmente ''le forze di lavoro risultano in crescita grazie agli stranieri regolarizzati".

OGNI ANNO NASCONO MIGLIAIA IMPRESE, NE MUOIONO DI PIU'
Anche il mondo delle imprese ha il suo indice demografico che registra "il declino della natalità, sistematico a partire dal 2000" e, al contrario, "un andamento ascendente del tasso di mortalità ". Lo rileva l'Istat che snocciola al proposito gli ultimi dati a disposizione, quelli del 2002: "il bilancio demografico delle imprese italiane si è chiuso con un passivo di cir-ca 21.000 imprese (circa 304.000 cessazioni contro circa 283.000 nascite)". Si tratta delle nascite e cessazioni reali di attività, al netto dunque di quello che l'Istat definisce il "rumore amministrativo", ovvero la registrazione di eventi che comportano solo formalmente la nascita o la cessione di un'azienda, come le fusioni, le scissioni, i cambiamenti di forma giuridica. Nel periodo 1999-2002 "il saldo del movimento demografico è risultato positivo e pari a circa 40.000 imprese". Il più alto tasso di turn-over riguarda le ditte individuali, che però restano stabili. Tengono invece le società di capitali, nelle quali "si rilevano la natalità più elevata (9,5%) e una bassa mortalità (6,0%)". In declino invece le società di persone e le cooperative che chiudono il quadriennio 1999-2002 con un saldo negativo di 31.000 imprese e 10.000 addetti in me-no.

IMPRENDITORI IN ECCESSO MA PRODUTTIVITA' E' MODESTA
Il nostro sistema produttivo è caratterizzato da "un eccesso di imprenditorialità " e da un tasso di produttività "modesto", più basso di dieci punti percentuali rispetto alla media europea. Lo sottolinea l'Istat nel Rapporto annuale. Il modello pro-duttivo resta dunque legato alle micro-imprese dove la specializzazione è "debole" proprio nei settori ad alta tecnologia ed elevata intensità di conoscenza, che risultano più forti rispetto alle pressioni concorrenziali internazionali, soprattutto dall'Asia, rispetto a quelli più tradizionali del made in Italy. Se si guarda, per esempio, al settore manifatturiero, a fronte di una produttività del lavoro (cioé il valore aggiunto per addetto in migliaia di euro) pari al 57,6% del Regno Unito e del 56,5% in Germania, in Italia è solo al 42,3%. "Nonostante la bassa produttività il costo del lavoro contenuto - rileva l'isti-tuto di statistica - mantiene la redditività delle imprese italiane in linea con quelle europee". L'impresa italiana "sopporta un costo del lavoro per dipendente decisamente più basso, in particolare nella manifattura, dove la differenza è pari a circa 9.000 euro con la Francia e 14.000 euro con la Germania". La conclusione, dunque, è che la redditività di un'impre-sa resta tutta ancorata ai "vulnerabili", così li definisce lo stesso istituto di statistica, equilibri contrattuali.

TAGLIO CUNEO: BENE A COMPETITIVITA', NO A INNOVAZIONE
L'annunciata misura del taglio del cuneo fiscale può essere salutare ai fini della competitività delle imprese, ma "rischia di fornire un disincentivo all'innovazione". Lo ha detto il presidente dell'Istat Luigi Biggeri, nella presentazione del rappor-to annuale. "Le misure in discussione sulla riduzione del cuneo contributivo - ha sottolineato Biggeri - forniscono segnali solo parzialmente coerenti con le esigenze di trasformazione del sistema delle imprese. La riduzione proposta di 5 punti percentuali dei contributi sociali, con un costo netto per il bilancio pubblico pari a circa 10 miliardi di euro - spiega il pre-sidente dell'Istat - avrebbe l'effetto di ridurre il costo del lavoro e aumentare la redditività lorda di circa 2-3 punti percen-tuali se l'intero risparmio andasse a favore delle imprese. Ciò rappresenterebbe uno choc positivo in termini di competiti-vità, ancorché una tantum. Questa misura rischia però - avverte Biggeri - di fornire un disincentivo all'innovazione di pro-dotto e di processo e al passaggio verso tecnologie più capital-intensive e, in assenza di meccanismi di selezione virtuo-sa, premerebbe sostanzialmente le imprese meno produttive". Per Biggeri anche "se una parte dei benefici fosse trasfe-rita ai lavoratori, l'impatto sui redditi disponibili delle famiglie sarebbe comunque modesto, senza concentrarsi su quelle in condizioni di disagio a meno che non si limiti il provvedimento a gruppi target selezionati".

LAVORO, BOOM FLESSIBILITA'ORARI,SOLO 1/3 IMPIEGATO 9-18
Sempre più italiani lavorano con orari flessibili: il film "Dalle 9 alle cinque orario continuato" vale solo per otto milioni di lavoratori, circa un terzo del totale mentre per gli altri sono sempre più frequenti i turni, il lavoro nel week end e quello notturno. Grazie alla crescita dell'impiego nei servizi e alla liberalizzazione degli orari nel commercio è aumentato anche il numero degli addetti impiegati di sabato (il 48,8% del totale) e della domenica (18,8% del totale) mentre il 22,1 è impe-gnato di sera e l'11,2% di notte. Il 13,3% degli occupati fa i conti con i turni. Il lavoro "full time standard" riguarda quindi il 36,1% della popolazione ed è più alto tra i dipendenti (41%) che tra gli autonomi (22,6%) mentre lavorano full time ma a volte anche nei week end il 26,9% degli italiani (22,8 dei dipendenti e il 38,3 degli autonomi). Gli italiani - sottolinea l'Istat nel suo rapporto Annuale - lavorano in media 38,1 ore a settimana, oltre un'ora in più della media Ue a 15: ma il dato ri-sente del basso livello del ricorso al part time nel nostro Paese (12,8% contro il 20,2 della media Ue) che alza la media delle ore lavorate. Nella sostanza invece un lavoratore a tempo pieno in Italia è impegnato per 40,6 ore, circa mezz'ora in meno della media europea. Il numero medio di ore lavorate è molto diverso se si considerano i lavoratori dipendenti e quelli indipendenti. Per i primi la media in Italia è di 36,5 ore a settimana (compresi quelli in part time) a fronte delle 35,6 della media europea. Per i lavoratori indipendenti la media di ore lavorate è di 42,4 ore contro le 43,5 dei lavoratori auto-nomi europei. Se il mercato del lavoro italiano avesse la struttura di quello dell'Ue a 15 - sottolinea l'Istituto di statistica - l'orario medio sarebbe del 3,9% inferiore a quello effettivo (per un'ora e 12 minuti). In Italia si lavora più ore soprattutto nelle aziende più piccole: in quelle con 10-49 addetti i lavoratori sono impegnati per una media di 1.744 ore all'anno (a fronte delle 1.621 dell'Ue a 15) mentre in quelle con una fascia dimensionale tra i 500 e i 999 ddetti i dipendenti sono im-pegnati per 1.592 ore (1.554 nella media Ue a 15). L'impegno orario torna a salire nelle aziende con oltre 1000 dipen-denti con un orario medio di 1.634 ore all'anno (1.500 nella media Ue a 15). Uno stesso impegno lavorativo pro capite comunque può essere espressione di combinazioni molto diverse di orari e tassi di occupazione: a fronte di bassi tassi di occupazione e poco part time in Italia nei Paesi bassi si rilevano molti occupati e ampia diffusione del tempo parziale. Gli uomini lavorano in media molte ore in più delle donne (41 ore a fronte di 33,5) soprattutto a causa dell'utilizzo del tempo parziale dalla parte femminile del mercato. Ma anche se si considera solo il tempo pieno le donne lavorano in azienda circa quattro ore in meno degli uomini con una media di 37,9 a fronte di 41,9 ore. Un vantaggio immediatamente perso con il lavoro familiare: ogni giorno infatti le donne impiegano nel lavoro di cura in media circa 4,07 ore a fronte di un ora e cinquanta minuti degli uomini.

12 MILA IMPRESE CONTROLLO ESTERO, FANNO BENE A SISTEMA
Le imprese che operano in Italia ma che hanno un controllo estero hanno conquistato "un ruolo importante nella diffusio-ne di nuove conoscenze e competenze, non solo di tipo scientifico ma anche di tipo organizzativo e manageriale, nonché di stimolo a una maggiore concorrenzialità nei mercati". Lo sottolinea l'Istat ricordando che queste imprese in Italia sono circa 12.000 e che occupano un milione di addetti. "Di notevole interesse - sottolinea l'Istat nel Rapporto annuale - sono anche le informazioni sui trasferimenti di conoscenze e competenze dall'Italia verso l'estero, che consentono di qualifica-re come investimento potenzialmente strategico una quota significativa delle imprese a controllo estero operanti in Italia".

PREZZI ALTI, 30% FAMIGLIE COMPRA MENO CARNE
L'aumento dei prezzi fa stringere la cinghia degli italiani anche quando si tratta di cibo: il 25% delle famiglie compra me-no pane e pasta mentre oltre il 30% meno carne, frutta e verdura; il 37,2% riduce l'acquisto di pesce; il 41,9% fa minori compere per l'abbigliamento e le scarpe. Il 15% opta per alimenti di qualità più bassa. Emerge dal rapporto annuale del-l'Istat che per la prima volta analizza il reddito e le condizioni di vita relativi al 2004.

DIDATTICA UNIVERSITA' NON RISPONDE A RICHIESTA MERCATO

La riforma dell'università ha puntato "troppo sull'attività didattica che non sempre corrisponde alla richiesta del mercato" del lavoro. E' quanto rileva l'Istat nel rapporto annuale sulla situazione del paese nel 2005, aggiungendo che è anche "fondamentale puntare sulla ricerca, motore dello sviluppo delle conoscenze e dell'economia". In generale, aumentano gli iscritti nell'anno accademico 2004/2005 che sono 1,8 milioni contro i 1,7 del 1999/2000 (+8,7%) e le immatricolati (quasi 332 mila con un +20,4% rispetto al 1999/2000). Aumentano anche gli studenti in corso, "anche se gli abbandoni - rileva l'Istat - continuano a rappresentare un problema: circa uno studente su cinque non si iscrive al secondo anno". I corsi attivi aumentano (+55%) ma nello stesso periodo il numero dei docenti cresce del 12%, con una riduzione del nu-mero medio di docenti per corso (dal 24 a 17) e un corrispondente calo del rapporto tra studenti e docenti (da 32,3 a 31,2). Tra le notizie positive, l'aumento dei laureati, passati da 152 mila del 1999 a quasi 269 mila del 2004 (+92 mila nei nuovi corsi triennali, +4 mila circa nei nuovi corsi biennali).

SCUOLA: SEMPRE PIU'STRANIERI IN AULA, +152% IN 5 ANNI
La aule italiane sono sempre più affollate di alunni stranieri. In cinque anni il numero degli studenti con cittadinanza non italiana è aumentato del 152%, passando da 147 mila del 2000/2001 ai 372 mila del 2004/2006, con un incremento degli extracomunitari europei e del continente americano. E' quanto rileva l'Istat nel rapporto annuale con la situazione del pa-ese nel 2005. Il numero di stranieri ogni cento alunni è salito, sempre in cinque anni, da 1,7 a 4,2, con una punta di 5,3 stranieri per cento iscritti nella scuola primaria. La presenza maggiore è di cittadini europei extra Ue (in totale 176 mila): di questi, il 90% vengono da Albania, Romania ed ex-Jugoslavia. Il 25% viene dai paesi africani (in diminuzione 2000/2001 quando erano il 29%) specie dal Marocco. Gli asiatici, in gran parte cinesi, sono il 15%, il 12% sud americani (Ecuador e Perù). Gli alunni stranieri sono presenti in netta maggioranza nelle scuole del Nord e del Centro e soltanto il 7% studia in istituti del Sud e il 3% in Sicilia e Sardegna. La Lombardia è la regione con più alunni non italiani (90 mila) ma è l'Emilia Romagna quella con maggiore incidenza : più di 8 studenti stranieri ogni cento iscritti, dieci nelle scuole primarie. Al Sud, Basilicata, Campania, Sicilia e Sardegna sono sotto l'1%. Per quanto riguarda l'offerta scolastica, gli istituti nel nostro paese sono 57.707 (anno 2004/2005 43% scuole dell'infanzia, un terzo le primarie, il 14% le medie, l'11% le superiori), il 78,8% dei quali sono pubbliche (si va dal 93% della Basilicata al 69,2% del Veneto. L'offerta di ser-vizi di istruzione primaria e secondaria è sostanzialmente omogenea sul territorio, rileva l'Istat, anche se nel Mezzogior-no permane una minore offerta di servizi extra scolastici come mensa, scuolabus e spazi gioco.

SPESA SOCIALE REGIONI PARI A 1/4 SPESA PUBBLICA
Nel 2003 la spesa delle Amministrazioni pubbliche destinata agli interventi sociali (per le funzioni sanità, istruzione, assi-stenza e beneficenza) é stata pari a circa 3.000 euro pro-capite, in crescita di oltre 900 euro nell'arco 1996-2003. Nello stesso periodo, la crescita di questa voce di spesa è stata superiore in termini nominali alla crescita del Pil. Sono alcuni dei dati che si ricavano dal Rapporto Istat 2005, più esattamente dal capitolo dedicato alla spesa sociale nelle Regioni. Le dimensioni della crescita non sono omogenee nelle diverse aree geografiche e nei diversi settori in esame. La stessa incidenza della spesa sociale sul complesso della spesa pubblica é cresciuta in termini percentuali, nel periodo 1996-2003, dal 21,9 a quasi il 25% del totale. * SPESA PIU' ALTA NEL NORD-OVEST, PIU' BASSA IN SUD E ISOLE Gli in-crementi maggiori della spesa sociale hanno riguardato il Nord-Ovest, circa 1.300 euro; i più bassi le regioni del Sud con 685 euro. Per quanto riguarda l'istruzione sono TRENTINO-ALTO ADIGE e VALLE D'AOSTA le Regioni che hanno regi-strato gli incrementi maggiori di spesa pro-capite, mentre per la sanità il primato spetta alla LOMBARDIA con un incre-mento di spesa quasi doppio rispetto al sistema delle Regioni. Per quanto riguarda l'assistenza l'incremento maggiore di spesa è stato del LAZIO, mentre SARDEGNA e ABRUZZO sono maglie nere, avendo registrato un decremento della spesa pro-capite anche in termini nominali. Il Rapporto Istat ha trovato una forte correlazione tra la spesa sociale media pro-capite e il Pil pro-capite: la spesa più alta è stata registrata nelle Regioni del nord e quella più bassa nel Mezzogior-no.

SANITA': DA SUD A NORD PER CURE, 7% RICOVERI FUORI CASA
Non accenna a diminuire il fenomeno della mobilità ospedaliera, soprattutto dalle regioni meridionali verso quelle del Nord. E nella maggior parte dei casi, alla base della scelta di 'migrare' per farsi curare vi è la mancanza di centri adeguati nella propria regione, specie nel settore dei trapianti. A fotografare il fenomeno è l'Istat, nel Rapporto annuale 2005. Tra il 1999 e i 2003, sottolinea infatti l'Istat, la mobilità ospedaliera interregionale non diminuisce: la percentuale di dimissio-ne di residenti ricoverati in un'altra regione passa dal 6,7% al 7,1%. Così, nel 2003 quasi 600.000 ricoveri, il 7% del tota-le di quelli ordinari per acuti, sono avvenuti in una regione diversa da quella di residenza del paziente. Le cause di questi 'viaggi'? Possono essere varie: "La mobilità - spiega l'Istat - può essere analizzata secondo due componenti: una 'fisiolo-gica', dovuta alla prossimità di strutture ospedaliere in una regione limitrofa o per la temporanea presenza in un luogo diverso da quello di residenza (per lavoro, turismo ecc.) e una motivata da fattori sanitari". E quest'ultima, si legge nel Rapporto, "può essere espressione sia di un'offerta non adeguata di strutture, sia di un'insoddisfazione del cittadino ver-so la qualità dei servizi erogati dalla specifica regione, sia infine dalla necessità di rivolgersi a centri specializzati per de-terminate patologie". Le regioni che hanno flussi in uscita più consistenti di quelli in entrata sono quelle del Mezzogiorno (a eccezione di Abruzzo e Molise) e fra queste, le regioni con una percentuale d'emigrazione superiore alla media sono Campania, Basilicata e Calabria. La maggior parte delle regioni del nord e del centro, invece, hanno al contrario flussi di entrata più consistenti di quelli in uscita e sono, quindi, "regioni d'attrazione". La mobilità di lunga distanza, rileva l'Istat, riguarda in particolare i residenti nelle regioni Puglia, Calabria, Sicilia, e Sardegna verso la Lombardia e l'Emilia Roma-gna. Così, in Lombardia ben 134.000 ricoveri riguardano non residenti e nell'Emilia Romagna circa 80.000. Quanto ai tipi di interventi per cui la mobilità è particolarmente elevata, al primo posto ci sono i trapianti. Altri settori ad elevata mobilità riguardano gli interventi per malattie endocrine e nutrizionali, le biopsie del sistema del sistema muscoloscheletrico, gli interventi per obesità, le ustioni e le terapie riabilitative per dipendenze da alcol e farmaci.

FORTE RITARDO NELLE TECNOLOGIE, SIAMO COME 20 ANNI FA
Il nostro sistema economico resta antiquato e "la situazione dell'Italia è caratterizzata dal permanere di un forte ritardo nella produzione di tecnologie e nel loro impiego nel sistema economico". Lo rileva l'Istat aggiungendo che "qualche mi-glioramento relativo si è invece manifestato per quanto riguarda la formazione di risorse umane, sia pure in maniera non uniforme". In ricerca e sviluppo la spesa dell'Italia "é rimasta intorno a un livello poco superiore all'1% del Pil, come a metà degli anni Ottanta". In Germania si spende il 2,5%, in Francia il 2,2% e nel Regno Unito l'1,8-1,9%. "Un divario no-tevole" con il resto d'Europa emerge anche nell'ambito delle tecnologie dell'informazione.(ANSA).

LAVORO: IN 10 ANNI 2,7 MILIONI OCCUPATI IN PIU'

Tra il 1995 e il 2005 l'occupazione in Italia è cresciuta di 2,7 milioni di persone raggiungendo quota 22.563.000 unità: è quanto si legge nel Rapporto annuale dell'Istat secondo il quale però la percentuale di occupati tra i 15 e i 64 anni pur crescendo dal 53% al 57,5% resta molto al di sotto della media europea del 2005 (64,6%). Il tasso di disoccupazione nella media 2005 era del 7,7% in calo rispetto al 9,1% del 2001 ma l'Istat segnala come questa riduzione sia stata possi-bile anche grazie alla crescita della popolazione inattiva dovuta alla rinuncia alla ricerca di occupazione soprattutto al Sud.

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